L’uomo d’acciaio

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Sono passati settantacinque anni da quel 10 Giugno del 1938, quando Superman fece il suo primo ingresso nel mondo dei fumetti Action Comics con il costume blu e il mantello rosso. A pochi giorni da un compleanno tanto importante, arriva nelle sale L’uomo d’acciaio, pellicola che segna sicuramente una svolta rispetto al modo in cui il cinema ci ha mostrato fino ad ora questo personaggio. Dopo i risultati piuttosto scarsi raggiunti da Superman Returns diretto da Bryan Singer sette anni fa, ora ci riprova Zack Snyder (Trecento, Watchmen) a riavviare il franchise  e a riportare in auge il supereroe con questo atteso reboot. Accanto a lui, nelle vesti di produttore e co-sceneggiatore, troviamo Christopher Nolan (Batman Begins, Il Cavaliere Oscuro, Il cavaliere oscuro – Il ritorno, Inception), che si è costruito una reputazione come autore di sci-fi drama tratti da fumetti e il suo fido braccio destro, lo sceneggiatore David S. Goyer. Con dei nomi del genere, e un trailer accattivante come pochi che sembrava promettere molto, le aspettative che ruotavano attorno a questo progetto erano decisamente alte.



E invece questo Man of Steel, dispiace dirlo, è un disastro. Lo script si rifà alla rilettura fumettistica delle origini di Superman apportata da John Byrne a metà degli anni Ottanta e si distacca, in parte, dalla storia del supereroe che conosciamo.
Sul pianeta Krypton le nascite sono controllate. I kryptoniani vengono generati e coltivati in stanze della vita molto simili a quelle di Matrix e modificati geneticamente per essere predisposti a rivestire ruoli ben precisi nella società. Contravvenendo alle leggi del pianeta, Jor-El (Russell Crowe) e Lara (Ayelet Zurer) hanno deciso di avere un figlio in maniera naturale per concedergli libero arbitrio sul suo avvenire. Mentre il pianeta sta collassando e il Generale Zod (Michael Shannon) tenta un colpo di stato, Jor-El invia suo figlio sulla Terra con il codice genetico kryptoniano. Trovatosi sulla Terra il piccolo Kal-El deve far fronte a una drammatica domanda: Perché sono qui?. Plasmato dai valori dei suoi genitori adottivi, Martha (Jessica Lane) e Jonathan Kent (Kevin Costner), Kal-El/Clark Kent scopre che avere abilità straordinarie significa anche prendere decisioni difficili. Diventato adulto, Clark decide di cercare risposte sulla sua identità e sui suoi veri genitori, e durante un viaggio scopre la Fortezza della Solitudine, un santuario kryptoniano in cui sono custoditi gli ultimi messaggi di Jor-El destinati al figlio: gli insegnamenti e le ultime volontà del suo genitore naturale convincono il ragazzo a diventare un simbolo di speranza per i terrestri e impegnarsi per mantenere la pace sul pianeta che lo ha adottato.


Un vero supereroe con superbroblemi, dunque, visto per la prima volta come ciò che realmente è, ovvero un alieno proveniente da un altro pianeta. Però solo all’apparenza perché l’approfondimento psicologico su cui Nolan ha costruito e ridato lustro alla trilogia di Batman, ne L’uomo d’acciaio, non funziona. Lo troviamo in ognuno dei personaggi, ma solo accennato e poi soffocato dall’azione di scene fracassone à la Transformers, in cui Superman non sembra affatto curarsi di calibrare la propria forza distruttiva. Osserviamo increduli mentre scaraventa gli avversari contro pompe di benzina, case, grattacieli e quant’altro, senza curarsi minimamente dell’incolumità della gente. Forse ci ricordiamo male, ma non rappresentava anche uno dei simboli dell’etica a stelle e strisce del XX secolo?

Ma andiamo con ordine, anche se il montaggio del film, che si fa strada a suon di flashback e flashforwards non ci aiuta in questo. Dopo il prologo su Krypton (osservando le prime scene vi sarà impossibile non pensare a Matrix o ad Avatar), ci si para davanti un Superman già adulto e già intento a salvare il mondo, sostenendo a mani nude una piattaforma petrolifera che sta per esplodere. Poi ci ritroviamo tra i ghiacci dell’Alaska per il primo incontro con il suo padre naturale, Jor-El, un ologramma decisamente più invadente rispetto a quello visto nel film di Richard Donner in cui nei panni dell’epico genitore c’era Marlon Brando. Ma ecco che arriva Lois Lane che, sentendo odore di scoop, a venti minuti dall’inizio del film scopre già praticamente tutto quello che c’è da sapere su Superman. Si procede per salti temporali confusi e pasticciati più o meno per tutto il film. Ma il picco più basso toccato dalla sceneggiatura di un veterano come David S. Goyer è forse la totale assenza di ironia o humor di qualunque tipo che aiuti a sopportare i numerosi momenti di stanca disseminati qua e là per l’intera durata della pellicola.

Toni eccessivamente imperiosi caratterizzano in negativo i dialoghi tra i personaggi, ripercuotendosi irrimediabilmente sul cast, che non è affatto sfruttato a dovere. Kevin Costner è logorroico nei panni del padre adottivo di Clark: una predica continua! Laurence Fishburne assolutamente sprecato come direttore del Daily Planet, così come Amy Adams come Lois Lane. Poco credibile anche il Crowe-Jor-El che compare in continuazione e in modo eccessivamente interattivo per essere un ologramma, rendendo il suo personaggio poco credibile. Per quanto riguarda il protagonista, poi, il sexy, muscoloso e, almeno in questa occasione monoespressivo Henry Cavill, dobbiamo ammettere che la somiglianza fisica con Supermen c’è. Trent’anni e una nomina come “Il più sfortunato di Hollywood” affibiatagli dalla rivista Empire dopo essere stato scartato nel Superman Returns di Bryan Singer (poi interpretato da Brandon Routh), da Stephenie Meyer che, pur definendolo il perfetto Edward Cullen lo considerò troppo vecchio per il personaggio poi interpretato da Robert Pattinson e anche da Martin Campbell che lo voleva come Bond in Casino Royale al posto di Daniel Craig, ruolo per cui era però ancora troppo giovane, il bel Henry sembra averne finalmente imbroccata una. Arrivato al successo negli ultimi anni grazie alla serie televisiva I Tudors nei panni del Duca di Suffolk, l’attore inglese si prepara a vestire nuovamente i panni di Superman per il sequel già messo in cantiere dalla Warner. Sperando che la prossima volta oltre alla tutina aderente, si ricordi di indossare anche un po’ di verve.

Un’ultima annotazione, sul 3D. Zack Snyder ha concepito e girato L’uomo d’acciaio in pellicola e in 2D, ma il film è stato successivamente convertito in 3D. Per esigenze di mercato? Probabile, ma guardando Man of Steel in 3D, soprattutto nelle scene action, il passaggio si nota eccome. Lontanissimo dal 3D nativo di un Hugo Cabret o di Vita di Pi, Man of Steel perde la sua battaglia anche sul piano visivo, aspetto che influisce non poso sul giudizio finale di un film di fantascienza, soprattutto se è stato realizzato con la cifra record di 225 milioni di dollari.

Insomma, la rilettura di Superman in chiave umana e vulnerabile non funziona, almeno non così. L’effetto Nolan, che con Batman è stato provvidenziale per infondere nuova linfa vitale al pesonaggio, con Superman non ha avuto lo stesso effetto, anzi, ha reso il film troppo serio, noioso e inutilmente concentrato sulla ricostruzione di un substrato credibile su cui poggiare la vera storia di Superman, quella che, probabilmente, vedremo nel prossimo film. E’ evidente che non tutti i supereroi si prestano a questa lettura real-intimistica, soprattutto se si pensa che rendere credibile e realistico un uomo dotato di superforza, che sa volare e che spara raggi laser dagli occhi è davvero un’impresa ardua. E la domanda: ma perché farlo allora? Da quando abbiamo visto L’uomo d’acciaio continuiamo a chiederci cosa ne avrà pensato Richard Donner. L’autore di quel Superman che, arrivato nei cinema l’anno dopo la rivoluzione Star Wars, aveva avuto il coraggio di scrivere nel claim: “Crederete che un uomo possa volare?”. Be’, a distanza di oltre trent’anni, quel Superman ci fa ancora volare.

Meglio una puntata di Smallville.
Voto 3

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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