Stoker

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India Stoker (Mia Wasikowska) è una ragazza sensibile e poco socievole, che vive con la famiglia in un’isolata villa nella campagna americana.
Suo padre muore in un incidente proprio il giorno del suo diciottesimo compleanno e, immediatamente dopo, a casa Stoker fa la sua comparsa lo zio Charlie (Matthew Goode), fratello minore del genitore, di cui India stranamente non aveva mai sentito parlare.
Pausa.
Da questo punto in poi ci sono due modi per leggere e interpretare questa prima trasferta americana del regista sud-coreano Chan wook-Park (Old Boy, Lady Vendetta) e ad ognuna di queste due letture corrisponde una diversa traccia narrativa da prendere in considerazione e una differente valutazione qualitativa da attribuire al film.
La prima lettura è quella che l’opera sembra suggerire ad un primo sguardo: gli effetti devastanti di un’intrusione; quella del misterioso zio Charlie nel menage di Evelyn (Nicole Kidman) e India, madre e figlia sconvolte dalla morte del capofamiglia, e di come questa influisca sul precario equilibrio nei rapporto tra le due, facendole precipitare in un vortice di sospetti e reciproche gelosie che evidentemente covava da sempre.
Ecco, se Stoker dovesse limitarsi a essere questo, il giudizio dovrebbe essere, per forza di cose, negativo. Troppo evidenti da subito la personalità ambigua e borderline dell’ospite inatteso e il meccanismo di seduzione morbosa che innesca verso cognata e nipote.
Niente di che insomma.



Laddove si decida invece di focalizzare l’attenzione esclusivamente sul personaggio di India, questa diciottenne un po’ secchiona e dalla vita sociale pressoché nulla, e sulla sua graduale perdita dell’innocenza, il film acquista allora ben altra sostanza.
E’ in questa direzione infatti che il virtuosimo e l’eleganza stilistica del regista coreano sembrano indirizzarsi maggiormente.
La struttura circolare del film e i dettagli insistiti della macchina da presa sul viso della bravissima Mia Wasikowska, ancora infantile nei tratti ma dotata di una maturità di sguardo che a tratti mette quasi a disagio, svelano ben presto il vero intento dell’autore, ossia celare dietro uno schema tipicamente hitchcockiano – in verità declinato in maniera piuttosto banale, come un De Palma girato con la mano sinistra insomma – la scoperta, da parte di una giovane donna, dei propri lati più oscuri e di una profonda fascinazione per il male. In altre parole la trasformazione di un’ordinaria crisalide in una farfalla tutt’altro che rassicurante. E l’omaggio al maestro del brivido e a una delle sue pellicole più acerbe ma allo stesso tempo ambigue e inquietanti, L’ombra del dubbio, è davvero ovunque in Stoker, a cominciare dal nome dello zio, Charlie, lo stesso del personaggio interpretato da Joseph Cotten nel film del ’41.

Un elogio quindi a Chan wook-Park e al suo inconfondibile stile – alcune trovate registiche sono di una potenza visiva che lascia di stucco – che esce indenne dal sempre difficile confronto/scontro tra la sensibilità asiatica e i rigidi meccanismi hollywoodiani. Non sempre simili matrimoni sortiscono effetti benefici.
Basti pensare a Wong Kar-wai e al tonfo di Un bacio romantico o anche solo al primo film americano di John Woo. So che non è bello ricordarlo, ma si chiamava Senza tregua e il protagonista era un certo Jean-Claude Van Damme.

Voto 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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