Il passato

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“Le vicende passate si possono deplorare, più che mutare”, dichiarava Annibale secondo l’Ab urbe condita di Tito Livio, e poco importa se ai due estremi della disputa possono venire a trovarsi un condottiero cartaginese e un generale romano nei pressi di Zama o una coppia franco-iraniana di coniugi in procinto di separarsi definitivamente, perché sempre di una decisiva battaglia campale provocata dall’egoismo e dagli errori di tutti si tratterà. Di uno scontro nel quale qualsiasi preambolo conciliatorio di facciata dovrà fare i conti con gli ostacoli insormontabili del mondo reale, come il brusco, inatteso tamponamento in retromarcia che precede i titoli di testa di questa nuova, magnifica fatica di Asghar Farhadi. Basta una manovra sbagliata con il volante e i sorrisi di circostanza scompaiono, ci si ritrova nel bel mezzo del conflitto, lo stesso che, secondo circostanze e ragioni diverse, vedeva protagonisti Nader e Simin nel precedente Una separazione, di cui questo Il passato può essere considerato una filiazione, o se non altro una variazione i cui temi preponderanti – dal ruolo determinante della menzogna e, soprattutto, della verità taciuta nella vita sociale all’ineluttabilità del senso di colpa e di responsabilità – restano comunque gli stessi, ma vengono a mutare drasticamente le sue precise coordinate etico-sociali e le sue finalità.



Per prima cosa, dopo cinque lungometraggi girati in patria, Farhadi si accoda alla carovana di maestri iraniani transfughi per ispirazione o, soprattutto, per necessità (Kiarostami e Naderi rispettivamente in Italia e in Giappone, e viceversa, Makhmalbaf in Israele e in Francia, Ghobadi in Turchia, e via discorrendo), alla ricerca dell’universalizzazione di un cinema che, nei suoi infiniti meriti e apici, è sempre rimasto indissolubilmente legato al carattere censorio e proibitivo della realtà del Paese. Laddove, quindi, Una separazione si scontrava con le mille facce di Teheran – quella progressista e quella conservatrice, quella laica e quella religiosa, quella alto-borghese e quella sottoproletaria –. Il passato si concentra sul lato prettamente umano ed emozionale della vicenda, sottolineando il lato  metacinematografico della poetica farhadiana, nella quale l’omissione – parola chiave di tutto il cinema dell’autore di About Elly – e l’incomprensione sono tanto alla base dell’intreccio, quanto, attraverso ellissi e silenzi, profondamente radicati nell’idea di messinscena, risultando in oltre due ore di banali schermaglie coniugali gestite e svelate, fra agnizioni e rivelazioni, con il ritmo nervoso e sfaccettato di un whodunit dei sentimenti. Approdare in Occidente, poi, significa per Farhadi ampliare non poco il proprio bagaglio di personaggi, che se prima era facile ricondurre ad un unico, basico nucleo familiare, ora, fra figliastri e patrigni, è decisamente più difficile tessere le fila di una genealogia, dove la natura non di sangue dei vari legami esaspera ulteriormente il senso di solitudine di un pugno di uomini e donne di cui verremo solo col tempo a scoprire l’identità e le ragioni, in misura forse ancora più clinica e oggettiva, ma tutto sommato compassionevole – sfumature lievemente misogine a parte – che in Una separazione. Infine, libero dall’impronta dell’ambientazione iraniana, Farhadi ristabilisce i contatti con il nume tutelare Antonioni – il cui L’avventura era stato esplicita fonte di ispirazione per About Elly – e ne aggiorna il discorso sull’incomunicabilità e sull’isolamento, già dall’inizio, quando la coppia appena riunitasi in aeroporto si parla attraverso una parete di vetro che azzera il suono, ripresentandolo per tutta la durata del film, fra suoni e rumori diegetici che spesso coprono la voce di uno degli interlocutori e dialoghi nei quali tutti parlano ma nessuno sembra ascoltare, fino a un finale di inusitata potenza – un sobrio, ma intensissimo piano sequenza di oltre sette minuti – che, senza svelare troppo, ci lascia ancora una volta col fiato sospeso.

Messo in mano a chi, caso unico nella storia dei maggiori festival europei, non solo trionfò a Berlino, ma garantì un premio tanto al cast maschile quanto a quello femminile, il terzetto di attori dà vita a tre performance impeccabili e complementari nella loro forza:  se Ali Mosaffa (l’ex marito Ahmad) è a tutti gli effetti il centro del film – che infatti si apre con il suo arrivo e si avvia a conclusione con la sua partenza – e a lui spetta il compito arduo di calare lo spettatore nelle pieghe della storia, a Bérénice Bejo (Marie-Anne), meritatamente premiata a Cannes e ormai pronta alla consacrazione internazionale dopo la performance rivelazione in The Artist, spetta il personaggio più complesso e, in fin dei conti, sgradevole, fra impressionanti cambi di registro e rari squarci di intensità che minano il tono sommesso e realistico dei dialoghi, mentre Tahar Rahim (il nuovo compagno Samir), finalmente in un ruolo come si deve dopo il sensazionale esordio ne Il profeta, si mantiene sullo sfondo per tutta la prima ora salvo poi rendersi protagonista delle scene forse più indimenticabili e coinvolgenti del film, dalla straziante conversazione in metropolitana con il figlio Fouad alla confessione risolutrice della commessa Naïma (un’altrettanto notevole Sabrina Ouazani, che fa piacere ritrovare cresciuta a dieci anni da La schivata di Abdellatif Kechiche), fino al già citato finale che, arrivando quasi a citare Ordet, chiude il racconto con una nota di speranza che suona quasi beffarda.

In attesa di una notte degli Oscar che lo vedrà quasi sicuro protagonista – e non necessariamente confinato nella “riserva indiana” dei migliori film stranieri – Il passato è un appuntamento immancabile per chiunque al cinema richieda innanzitutto autenticità, passione e un coinvolgimento emotivo che nessun baraccone in tre dimensioni sarà mai in grado di replicare.

Voto 8

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