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— 2 giugno 2019Torna l’appuntamento per i leader dell’industria audiovisiva.
Il nuovo film di Paolo Virzì, nelle sale dal 9 gennaio distribuito in 400 copie da 01 Distribution, rappresenta per l’autore livornese una svolta piuttosto radicale rispetto ai suoi lavori precedenti.
Tratto dal romanzo omonimo dello scrittore americano ed ex critico cinematografico Stephen Amidon, anch’egli presente in conferenza stampa, Il capitale umano – per chi scrive, il più bel film mai realizzato da Virzì – è una sorta di strano thriller psico-sociale ambientato in Brianza (nel libro era il Connecticut) in cui le vite di due famiglie si intrecciano a doppio nodo attorno alle indagini della polizia sul responsabile di un incidente automobilistico.
Oltre al regista e allo scrittore erano presenti alla conferenza stampa romana di presentazione tutti i membri del formidabile cast: Fabrizio Gifuni, la bellissima Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio, Luigi Lo Cascio e Valeria Golino.
Paolo Virzì, questo film rappresenta un cambiamento stilistico importante per te e, allo stesso modo, partendo da un romanzo così tipicamente americano, ti ha permesso di descrivere la crisi del nostro Paese in maniera così impietosa.
Quello che mi premeva principalmente era far emergere le questioni del Paese senza proclami o eccessiva enfasi, attraverso un romanzo appassionante che avesse al suo interno un forte elemento di thriller. In questo modo indaghiamo sulla natura dei personaggi raccontati, sulle loro miserie e sulle speranze di facili arricchimenti attraverso la finanza nello stesso modo in cui, nel film, la polizia indaga sul colpevole dell’incidente.
Quanto è diverso questo film dagli esordi de La bella vita?
Quello che citi in realtà era un altro film piuttosto cupo, in cui cercavo di descrivere la disperazione. Ciò che è cambiato negli anni è la tecnica, all’epoca piuttosto grezza. Ricordo che mi limitavo a dire al direttore della fotografia “questo personaggio lo voglio più piccolo, questo grande”, mentre adesso io e i miei collaboratori abbiamo raggiunto una conoscenza degli strumenti tecnici più completa e raffinata, che spero di noti.
Per Il capitale umano ricercavamo dei paesaggi “esotici” – per me che vengo da Livorno la Brianza non è dissimile dal Connecticut del romanzo – e lo humour nero tipico di certa narrativa ebraica americana, oltre che le suggestioni del cinema di Chabrol. Sentivo di voler esplorare qualcosa di nuovo che il puzzle descritto nel romanzo di Stephen (Amidon) mi permetteva di fare alla perfezione.
Sei stato più volte descritto come l’erede di Dino Risi. Questo film rappresenta un po’ la tua virata verso I Mostri?
Innanzitutto I Mostri era un film sostanzialmente comico e questo no. Se da un lato apprezzo sempre il paragone con certi classici del cinema italiano, è anche vero che negli anni ho cercato di sporcare certi modelli guardando avanti, cercando la mia strada per un cinema che guardasse più al futuro che non al passato.
Una domanda all’autore del libro, Stephen Amidon: Cosa ne pensa del film?
Prima di tutto voglio sottolineare quanto io ami questo film. Sono rimasto stupito da quanto fosse ben fatto. Le mie influenze come scrittore sono principalmente cinematografiche, per cui è stato bello vedere come quelle suggestioni, una volta trasferite nel romanzo, venissero nuovamente trasformate in linguaggio per immagini.
Quello che mi ha stupito di più è stato il lavoro degli sceneggiatori (oltre a Virzì hanno scritto il film Francesco Bruni e Francesco Piccolo) sulla complessità di un libro che, per la sua stesura, mi ha preso quattro anni di vita e a volte ho avuto quasi l’impressione potesse uccidermi e come siano riusciti a risolverla in maniera così brillante sullo schermo.
E ora gli attori. Come vi siete approcciati a dei personaggi così complessi e, in parte, anche sgradevoli?
Bruni Tedeschi: Io parto sempre ponendomi delle domande sulla realtà del personaggio e sui suoi dissidi interiori e poi lascio che questi dissidi esplodano, in maniera naturale, direttamente sul set.
La mia ricerca si basa essenzialmente su questa guerra interiore del personaggio.
Golino: Per me il punto centrale era capire il perché una donna così positiva potesse stare con uomo come Dino (lo squallido personaggio interpretato da Fabrizio Bentivoglio). Dovevo trovare in me delle motivazioni che le permettessero di non vedere il marcio che Dino tira fuori nella storia.
Poi devo dire che è stato molto bello lavorare con amici come Fabrizio Gifuni e col mio ex fidanzato (ride, indicando Bentivoglio). Per certi versi è più difficile, ma molto più appagante.
E con Paolo era da tanto tempo che desideravo lavorare.
Bentivoglio: Alla base del personaggio di Dino c’è la consapevolezza che esiste un confine piuttosto sottile tra umano e disumano e che, a volte, questo si superi con estrema facilità e di come questo confine vada invece sorvegliato. Il mio personaggio fa paura perché non è lontano dalla realtà, anzi è “smisuratamente” normale.
Gifuni: Per la prima volta nell’arco della mia esperienza cinematografica mi sono divertito a tratteggiare un ruolo assolutamente negativo, cercando do aggiungere, rispetto al lavoro già perfetto degli sceneggiatori, un pizzico di violenza in più. E’ qualcosa che se in teatro mi capita di fare spesso, al cinema non era ancora mai accaduto.
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
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