Monuments Men

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Premessa: i film del George Clooney regista mi sono sempre piaciuti molto, tutti. Sin dal suo esordio dietro la macchina da presa con Confessioni di una mente pericolosa, il Clark Gable del XXI secolo, con quel sorriso sornione e quella gestualità decisa e risoluta, si è rivelato un autore perfettamente consapevole dei propri mezzi, affinati sempre di più attraverso pellicole di denuncia quali Good Night and Good Luck, emozionante viaggio in bianco e nero tra i segreti e le responsabilità del giornalismo d’inchiesta, o Le idi di Marzo, con cui ci ha accompagnati negli anfratti della politica più bieca e corrotta, terreno cedevole sul quale si combatte a suon di manate di fango e senza esclusione di colpi. Date queste premesse, le attese per Monuments Men erano piuttosto alte. Una pellicola che Clooney ha scritto, diretto e interpretato, ulteriore tassello da aggiungere ad una filmografia il cui leitmotiv formale sembra essere il voler preservare ad ogni costo un certo tipo di cinema, di stampo classico e d’altri tempi, curato e rifinito nel più minimo dettaglio.



I Monu­ments Men sono un gruppo spe­ciale di esperti d’arte, intel­let­tuali, cura­tori di musei e archi­tetti non più giovani e neanche troppo in forma che, su man­dato di Roo­se­velt, ven­gono inviati in Europa alla fine della Seconda Guerra Mondiale alla ricerca dei capo­la­vori tra­fugati dai nazi­sti, per restituirli ai legittimi proprietari (all’origine del film c’è il libro di Robert M.Edsel Monuments Men. Eroi alleati, ladri nazisti e la più grande caccia al tesoro della storia, edito in Italia da Sperling&Kupfer). Un incarico che si scontrerà molto presto con le prio­rità mili­tari, uomini a cui la missione artistica dei nostri non solo non interessa, ma appare come una follia. E i Monuments Men (George Clooney, Matt Damon, Bill Murray, John Goodman, Jean Dujardin, Bob Balaban, Hugh Bonneville e Cate Blanchett), una sorta di Sturmtruppen di intellettuali le cui reclute non riescono neanche a tenere un fucile in mano, dovranno arrangiarsi come possono in un contesto a loro estraneo, tra momenti divertenti ed altri decisamente drammatici.

E’ la prima volta che Clooney si cimenta con la grammatica del cinema di guerra, ma non sembra essere quella a lui più congeniale; mitiga gli stilemi del genere farcendo la vicenda con siparietti che stemperano qua e là il peso di un soggetto dall’indubbia gravità e la cosa non sempre funziona. Le atmosfere ci sono e anche la storia, ma il film, che è incentrato su una storia corale, soffre di una forte discontinuità narrativa e, cosa ancor più grave, non sfrutta appieno le capacità di un cast straordinario, sulle cui spalle sono stati cuciti personaggi appenna abbozzati. E fa una gran rabbia, perché quando si ha tra le mani un’avventura che strizza l’occhio a Indiana Jones (molti gli elementi in comune con la saga spielberghiana: a cominciare dalla caccia al tesoro, anzi ai tesori, da salvare, fino ai villain nazisti), che torna sui luoghi di Salvate il soldato Ryan, anche se con ben altri toni, che in alcune scene richiama alla mente le immagini di Germania anno zero e in altre ancora quelle de Il treno, avvincente film che John Frankenheimer diresse nel 1964, certi errori sono più difficili da perdonare. D’accordo, Monuments Men, passato Fuori Concorso a Berlino, rimane un’esperienza piacevole, un ottimo strumento di divulgazione di una vicenda fondamentale per la storia del mondo che altrimenti sarebbe rimasta sconosciuta ai più, ma resta il fatto che si tratta del film più deludente tra quelli diretti da Clooney. E lo scampolo finale della pellicola, affidata a papà Nick, risulta una mossa stucchevole e dottrinale, di quelle che da un americano sui generis come George non ci si aspetta.

Voto 5

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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