Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Mitch Brockden (Dominic Cooper) è un giovane avvocato di successo.
Felicemente sposato e padre da poco, la vita sembra sorridergli sia professionalmente che nel privato.
Una notte però la fortuna gli volta le spalle e, dopo una serata con gli amici accompagnata da qualche drink di troppo, Mitch investe accidentalmente un pedone riducendolo in fin di vita, poi, preoccupato delle possibili conseguenze, chiama soccorsi da un telefono pubblico e abbandona il ferito in strada.
Quando, la mattina dopo, l’anonimo meccanico Clinton Davis (Samuel L. Jackson) viene incolpato dell’omicidio di quello stesso uomo, Mitch fa di tutto per farsi assegnare il caso e scagionare l’uomo.
Ma le cose si complicheranno ulteriormente.
Quello che sulla carta potrebbe apparire come un incipit piuttosto farraginoso è in realtà di una banalità sconcertante. Roba da sceneggiatori alle primissime armi, per intenderci.
Va detto, a onor del vero, che almeno un paio di segnali erano già più che sufficienti a lasciar presagire il disastro. Uno su tutti, il regista.
Quando un filmaker non proprio eccezionale come Peter Howitt (Sliding Doors, Laws Of Attraction: Matrimonio in appello) decide di dirigere un film utilizzando uno pseudonimo (una volta era pratica neanche tanto rara e uno degli alter ego più in voga era Alan Smithee) un motivo dovrà pur esserci.
Questo valga già come indicazione preliminare all’ingresso in sala.
Poi c’è un oggettivo problema di scrittura. Se, assistendo alla proiezione di un thriller, esattamente a metà film già riesci a percepire dove andrà a parare il plot, evidentemente quel film ha fallito il suo compito principale che, almeno in teoria, avrebbe dovuto essere quello di spiazzare lo spettatore.
Non che qualunque pellicola di genere debba per forza avere il potere di tenere lo spettatore incollato alla poltrona, ma nemmeno ci si aspetta che possa far rimpiangere una qualunque puntata di C.S.I..
Tutto sembra sbagliato in Un ragionevole dubbio, a partire dalla scelta di un brutto sosia di Joshua Jackson come protagonista fino a un Samuel L. Jackson al minimo sindacale, quasi fosse conscio del disastro a cui andava incontro accettando di partecipare a questo pasticcio, o forse incastrato in un ruolo così stereotipato da meri obblighi contrattuali.
Davvero non si comprendono i motivi che possano aver portato dei produttori a stanziare i fondi necessari alla realizzazione di un’operina così esile e inconsistente.
Poc’anzi citavamo C.S.I. non a caso, perché – senza voler scomodare capisaldi come The Wire o Breaking Bad – in un’epoca in cui la serialità televisiva sembra dettare le linee guida della moderna drammaturgia per immagini, il cinema non può, e soprattutto non deve, permettersi di prescindere da queste.
In caso contrario il rischio è di venirsene fuori con qualcosa di molto simile al film di Peter Howitt: un innocuo thriller paratelevisivo che vorrebbe ricordare certi legal thriller tipicamente anni Ottanta come Suspect di Peter Yates o Presunto innocente di Alan J. Pakula, senza però averne il mestiere né tanto meno poter contare sul carisma di un interprete che sia uno.
Più che brutto, irritante.
Voto 4
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