Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
“Cara Catherine,
Ti amerò sempre perché insieme siamo cresciuti e perché mi hai aiutato a farmi diventare così.
Voglio solo che tu sappia che dei frammenti di te resteranno per sempre in me. E di questo te ne sono grato. Qualsiasi cosa tu sia diventata e ovunque tu ti trovi nel mondo, ti mando il mio amore.
Sarai mia amica per sempre.
Con affetto, Theodore.”
Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) per vivere scrive lettere personali per conto di altri.
Emotivamente bloccato dall’incapacità di superare la fine del suo matrimonio con Catherine (Rooney Mara), l’uomo mette in pausa la sua vita e trova temporaneo rifugio in una zona franca all’interno della quale c’è posto solo per se stesso, per un pugno di ricordi di vita insieme e per tutta la sua malinconia.
Fuori dal recinto c’è il resto: il lavoro, i pochi amici e i documenti di un divorzio che Theodore si ostina a non firmare perché, come ripete più volte, non si sente ancora pronto a lasciare andare quel pezzo della sua vita.
Solo Samantha (nell’originale una Scarlett Johansson privata di tutta la sua fisica sensualità, rimpiazzata, nel doppiaggio italiano, da Micaela Ramazzotti) riesce nell’impresa di aprire una breccia in questo mondo interiore, e il fatto che Samantha sia la suadente voce femminile di un sistema operativo di ultima generazione la dice lunga sul livello di solitudine raggiunto dal protagonista.
Questo è, senza voler raccontare troppo, il nuovo film di Spike Jonze (Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee), presentato lo scorso ottobre In Concorso al Festival di Roma, ed è un capolavoro.
E’ un film talmente bello che parlarne risulta quasi difficile, figuriamoci analizzarlo.
Sulla locandina, quasi fosse un monito, campeggia la scritta “A Spike Jonze Love Story” e solo di questo si tratta in fin dei conti.
Non c’è difatti una sola scena in Lei, o anche un singolo fotogramma, che non trasudi amore.
Anzi, Spike Jonze, con un coraggio più che raro nell’industria cinematografica di oggi, riesce nell’impresa di andare oltre il semplice gesto del raccontare una love story e, attraverso una felice combinazione di tecnica e poesia, trasforma l’intero film in un unico, indimenticabile atto d’amore.
Affrancatosi in via definitiva dalle macchinose strutture narrative di Charlie Kaufman (sceneggiatore sia di Essere John Malkovich che de Il ladro di orchidee), l’autore è stato finalmente libero di portare a compimento quanto iniziato nel precedente e bellissimo Nel paese delle creature selvagge e di abbandonarsi quindi a suggestioni quasi del tutto prive di tutte le possibili reti protettive fornite da una sceneggiatura più rigida.
Una volta libero da vincoli drammaturgici forti, Jonze sceglie quindi di affidarsi in maniera pressoché totale all’attore più emancipato in quanto a vincoli della recitazione classica che ci sia in circolazione (un Joaquin Phoenix immenso, che riesce ad andare oltre il livello già raggiunto in The Master) e, lavorando per sottrazione, costruisce un flusso di coscienza in cui dolcezza e malinconia si fondono fino a formare qualcosa di totalmente inedito.
Non si commetta però l’errore di valutare Lei, solo sulla scorta della sua sinossi, come una semplice critica dell’alienazione prodotta da un abuso di comunicazione digitale.
Non lo è per vari motivi, in primis perché la relazione che si instaura tra Theodore e Samantha non viene mai rappresentata come qualcosa di deviante o malato, ma come un’alternativa assolutamente plausibile – e questo è soltanto uno dei colpi di genio dell’opera – ai comuni rapporti tra due esseri umani.
E non lo è perché risulta evidente anche ai più distratti che a Spike Jonze non interessa affatto la critica sociale. Ciò che gli preme è più ordinario e, se vogliamo banale ed ha a che fare con le piccole e grandi perdite (più di noi stessi che non degli altri) che affrontiamo nell’arco di una vita e coi modi con cui siamo soliti cristallizzare i rapporti dentro ricordi il più delle volte arbitrari, quando non addirittura mendaci.
Ciò che stupisce semmai è la capacità del regista di parlare di cose tristi senza mai perdere di vista la leggerezza di fondo che accompagna lo spettatore per tutta la durata del film.
In questo Lei è più vicino all’idea di romanticismo de Il lato positivo di David O. Russell che non a film solo apparentemente più simili per temi trattati, due su tutti I Love You di Marco Ferreri e Lars e una ragazza tutta sua di Craig Gillespie.
Solo che, come in ogni suo altro film, l’autore ha bisogno di un elemento straordinario che gli consenta di mettere in moto la sua straordinaria macchina affabulatoria.
In Lei, questa variabile è rappresentata da un sistema operativo intelligente che, rispondendo in maniera perfetta ai bisogni del protagonista, in realtà ne riflette il processo di crescita interiore.
Se infatti nel film si descrive una storia d’amore non è tanto quella tra Theodore e Samantha – per quanto il loro rapporto attraversi tutte le fasi dell’innamoramento senza precludersi neanche quella relativa alla fisicità – bensì tra Theodore e l’idea stessa che ha dell’amore.
Samantha piuttosto rappresenta per Theodore un filtro tra lui e il mondo, una lente attraverso la quale ricominciare a guardare una realtà che fatica a interpretare.
Elegia della distanza fisica e della malinconia contrappuntata in maniera sublime dalle musiche degli Arcade Fire, l’opera di Jonze trascende i confini di genere e decide, pur svolgendosi su un piano temporale futuro, di rifuggire da qualsiasi deriva sci-fi modellando un altroquando pop in cui gli uomini vestono abiti anni Cinquanta e abitano in appartamenti dai toni seventies, in una cornice – senza dubbio bellissima – che perde ben presto importanza di fronte al peso specifico della storia.
Anni fa David Lynch, parlando del suo Strade Perdute, lo definì come un film fatto della stessa materia dei sogni e, in maniera similare, potremmo azzardarci a definire Lei come un film fatto della stessa materia di cui è fatto l’amore.
Il consiglio quindi non è tanto di andare a vedere Lei, ché il semplice vederlo rappresenta più che altro un imperativo categorico.
Il consiglio è di perdercisi dentro come si fa con l’amore.
E poi andare a rivederlo una seconda volta.
E poi anche una terza.
Voto 9
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
A Spike Jonze Love Story. La recensione.
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