Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Dal Texas non vengono solo tori e checche, come sosteneva il severo Sergente Hartman in Full Metal Jacket. Ma anche Wes Anderson, uno dei più originali rappresentanti del cinema americano non mainstream, le cui opere meritano di essere guardate oltre che viste e sentite, oltre che ascoltate. Giunto alla sua ottava pellicola, il regista de I Tenenbaum, Fantastic Mr. Fox e Moonrise Kingdom continua a riproporre con una certa coerenza le tematiche e le scelte stilistiche che hanno contraddistinto il suo modo di fare cinema sin dagli esordi; e questo Grand Budapest Hotel ne è l’emblema, stilistico e formale. Una farsa delirante e patinata che racchiude tutte le caratteristiche peculiari del cinema di Wes Anderson e trae spunto dalle opere dello scrittore austriaco Stefan Zweig, autore animato da un convinto pacifismo che nel 1933 si vide bruciare dai nazisti ciò che aveva scritto. Divertissment a tinte piene popolato di personaggi ironici e decadenti, la pellicola racconta le vicende dei clienti del lussuoso albergo arrampicato sui monti di un immaginario stato della MittelEuropa, del suo carismatico concierge, Gustave H., intepretato da un eccezionale Ralph Finnies, e del garzoncello appena assunto, Zero Moustafa, l’esordiente Tony Revolori. L’intreccio, ennesima conferma di quanto Anderson sia anche un virtuoso della narrazione, si snoda attraverso tre epoche e segue tre linee principali. La prima, ambientata negli anni Ottanta, vede protagonista Tom Wilkinson come narratore onnisciente e autore del libro sul Grand Budapest Hotel; con la seconda siamo nel 1968 ed entrano in scena Jason Schwartzmann, Jude Law (il giovane Wilkinson) e F. Murray Abraham (Zero Moustafa da adulto), che assume la voce narrante di ciò che accade nel terzo contesto (in cui è ambientata la vicenda principale), che si svolge nel 1932, i cui protagonisti sono appunto Monsieur Gustave H. e il giovane Zero Moustafa.
Girato a Gorlitz, piccolo paese al confine con la Repubblica Ceca, il film vanta un cast affollatissimo e stracarico di volti noti: da Edward Norton a Saoirse Ronan, da Jeff Goldblum a Bill Murray, passando per Adrien Brody, Mathieu Amalric, Léa Seydoux, Owen Wilson, Tilda Swinton, Willem Dafoe, Harvey Keitel e tanti altri.
I riferimenti autoriali alla cinematografia europea a cavallo tra le due guerre si sprecano: si va dalle atmosfere à la Jean Renoir alla perfezione della messa in scena che caratterizza i film di Max Ophüls, ma anche la proverbiale ironia delle pellicole di Ernst Lubitsch sembra essersi impadronita della mente del giovane Wes che, in puro Anderson Style, rimescola sapientemente tutti questi spunti e li rielabora attraverso la propria visione fatta di inquadrature simmetriche ed impeccabili e di luoghi fiabeschi in cui personaggi strambi e spesso disadattati trovano una sorta di isola felice in cui potersi rifugiare. Ormai lo conosciamo bene, Wes Anderson tende a saturare ogni centimetro inquadrato con il suo stile ipercromatico, mentre l’attenzione che ha per i costumi (davero splendidi, realizzati da Milena Canonero) e per gli oggetti in genere, rasenta la maniacalità. L’arredamento vintage degli ambienti del Grand Budapest Hotel è ricco di pezzi di modernariato ed evoca uno stile che fu, nonostante rimanga attribuibile a uno specifico contesto storico e sociale. Lo stesso dicasi per la colonna sonora firmata da Alexandre Desplat (non c’è nessun pezzo pop questa volta, e va benissimo così) con brani che cavalcano perfettamente il mood scaturito dalle immagini, affiancandole con tenacia per tutta la durata della pellicola. E poi ci sono i differenti formati di proiezione che accompagnano due delle tre epoche storiche in cui è ambientata la vicenda: Anderson si diverte a giocare con l’aspect ratio alternando un 4:3 che rasenta una forma quasi quadra a un ben più moderno 16:9.
Il rischio che l’estetica prevalga sul narrato, quando si confeziona un film così, è sempre in agguato, ma il regista texano aggira l’ostacolo con l’eleganza che gli è propria, farcendo la storia con gag in puro stile slapstick, divertenti colpi di scena e un sottile umorismo british.
Come per il resto della sua filmografia, anche per il Grand Budapest valgono le obiezioni che sono sempre state sollevate da pubblico e critica nei confronti del suo cinema, accusato di rappresentare mondi chiusi, del tutto impermeabili a tematiche di attualità e assolutamente lontani dalle questioni politiche e sociali. Di certo in Grand Budapest Hotel c’è tutto quello che i fan di Wes Anderson possono sperare di trovare in un suo film, anche di più. Chi invece fino ad ora non è riuscito a stabilire un contatto con il cinema del regista, è probabile che troverà la pellicola infinitamente noiosa e poco incisiva. Noi non apparteniamo alla schiera dei detrattori e troviamo l’universo dell’autore e quel suo immobile formalismo del tutto staccato dalla realtà, qualcosa di meraviglioso e rassicurante.
Voto 8
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
Un Wes Anderson visionario e bohemien ci porta acora una volta nel suo mondo incantato fatto di ironia, forme e leggerezza.
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