Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Zach (Zach Gilford) e Samantha (Allison Miller) sono una coppia di neosposi in luna di miele a Santo Domingo.
Durante quello che appare, a tutti gli effetti, come un idillio, i due hanno una specie di blackout: una notte infatti, un tassista del luogo li convince a seguirlo ad un’oscura festa di cui, complice il troppo alcol, la mattina dopo ai due non resta alcuna memoria.
Di ritorno negli Stati Uniti Samantha scopre di essere incinta. Zach decide quindi di filmare tutte le fasi della gravidanza con una videocamera, ma i comportamenti sempre più strani e inquietanti di Samantha lo spingeranno a interrogarsi su cosa sia realmente accaduto quella misteriosa notte, mentre la loro vita assume sempre più i contorni di un incubo.
Il found footage, genere codificato in termini horror nel 1999 (anno di uscita del pessimo The Blair Witch Project) e diventato poi uno dei modi più inflazionati di filmare il perturbante, dando vita in effetti a pochi film degni di nota; forse giusto Cloverfield di Matt Reeves e lo spagnolo Rec meritano una menzione.
L’intuizione di Tyler Gillett e Matt Bettinelli-Olpin di applicare lo schema del finto collage di immagini di repertorio al filone “nascita dell’Anticristo”, caro a tutti gli amanti di pellicole seminali sul genere Rosemary’s Baby e Il Presagio, però funziona e contribuisce a dare nuova linfa a un genere che troppo spesso produce opere che tutto fanno tranne che spaventare.
L’operazione sulla carta era anche rischiosa, in quanto il found footage impone la rinuncia di elementi tecnici (la colonna sonora ad esempio) spesso fondamentali per creare disagio nello spettatore, ma i due giovani cineasti sopperiscono alle assenze con un uso minimale e calibratissimo degli effetti speciali che, inseriti in un contesto di video amatoriale, risultano ancora più spaventosi, anche attraverso l’intelligente diversificazione dei punti di vista (oltre alla videocamera di Zach ci sono infatti numerose camere a circuito chiuso a riprendere ciò che vediamo).
Diversi sono i punti di forza de La stirpe del male: in primis la scelta di ridurre al minimo le lungaggini introduttive e l’ottima gestione delle dinamiche ad effetto e della tensione, distribuita e alternata a scene di tranquilla vita domestica in maniera via via crescente e mai gratuita nell’arco di tutta la durata del film.
Piace inoltre l’accenno di riflessione sui meccanismi della visione, che trova la sua massima rappresentazione nella scena in cui Zach, nel tentativo di risalire ai fatti accaduti a Santo Domingo, visiona su un PC tutto ciò che lo spettatore ha già visto fino a quel momento, in un processo che, se da una parte azzera del tutto la finzione scenica amplificando – e molto anche – l’apprensione di chi guarda, dall’altra rende il ragazzo sia regista (fittizio) che spettatore.
Non siamo insomma né dalle parti del nulla pneumatico della serie di Paranormal Activity (dove, di fatto, nulla accade) né tantomeno in quelle dell’ottimo The Borderlands di Elliot Goldner che, dovendo fare i conti con un budget risicatissimo, era interamente costruito su un accumulo di elementi sinistri che confluivano tutti verso un unico spavento finale.
Qui invece si trema parecchio. Dall’inizio alla fine.
Voto 7
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