Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
La famiglia raccontata ne Le meraviglie è ancora tardo hippie, comunista nel senso di comune, di luogo di condivisione collettiva in cui edificare una sintesi virtuosa e miniaturizzata d’una società ideale, molto diversa da quella corrotta e distorta dalla storia che è là fuori, sempre pronta ad assediare e ad insidiare la comunità. Il mondo esterno può avvelenare, inoculare il virus del denaro o dell’immagine in una fortino-comunità che oramai per resistere si è semplificata, inscheletrita, sul nucleo più interno e primario, ovvero la famiglia. La famiglia rohwacheriana del ’94 è ancora “ideologica”, legata, come emerge anche da alcuni dialoghi, agli schemi politici degli anni Settanta e oramai condannata a disgregarsi, a cedere alle pressioni esterne. Una famiglia e un casale davvero lontani dal gineceo radical-chic e dal casale-agriturismo raccontati nel 1986 da Mario Monicelli in Speriamo che sia femmina. Film che cercava di fendere un’incrinatura nell’allora compatto kitsch degli anni Ottanta e che anticipava i Novanta, anni ancora abbastanza ricchi ma non più arricchiti, in cui il benessere conquistato si andava raffinando in scelte, in forme di socializzazione meno colorate e consumistiche. Gli anni Novanta della Rohrwacher sono in parte ancora una prosecuzione del decennio precedente.
Così la fata pacchiana e felliniana di una TV locale naïf, interpretata da Monica Bellucci, è l’ultimo personaggio di un mondo del decennio scorso che negli anni seguenti, con passo felpato, abbandonerà la scena, così come un fantasma degli anni Settanta, oramai fuori dalla storia, è anche il capofamiglia rohrwacheriano. Di lì a poco, l’esplosione della telefonia mobile, seguita da quella di Internet, fino a scavallare il Duemila e trovarsi improvvisamente in un altro paesaggio antropologico, sospeso tra benessere e crisi. Le meraviglie adotta uno stile ibrido, volutamente non estetizzante, in cui la “meraviglia” è nelle piccole cose, nelle piccole vite (a partire da quelle delle api), nei minimi spostamenti dei sentimenti e degli affetti. Un sentimento di meraviglia verso l’esistenza e la realtà – particolarmente espresso nell’età della protagonista Gelsomina – che avvicina il film allo spirito di Respiro di Emanuele Crialese ma anche al cinema “spoglio e meravigliato” di Salvatore Mereu; penso a Ballo a tre passi o a Bellas mariposas. Ovviamente la fata kitsch della Bellucci e un cammello comprato dal capofamiglia farebbero pensare a un certo manierismo fellinista mentre l’ambientazione, a certe periferie di Uccellacci e uccellini se non, addirittura, ai desolati panorami di Ciprì e Maresco. Ma tutti questi parallelismi con altri autori si rivelano presto inesatti. Lo stile di Alice Rohrwacher deve ancora evolvere e definirsi ma è già abbastanza originale ed interessante. Ed è ottima anche la mano con cui dirige gli attori, innanzi tutto Gelsomina, una intensa Maria Aleandra Lungu. Le meraviglie è un bel film che però, come gli anni che racconta, probabilmente è un ponte cinematografico che porterà l’autrice, se seguirà queste giuste premesse, ad elaborare ulteriormente una propria estetica, ancora più potente e definita.
Voto 7
Recensione a cura di Raffaele Rivieccio
(www.binarioloco.it)
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