Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Con un avvio come la disastrosa, fischiatissima première de La vita oscena a fare da indicibile apripista per la comitiva italiana, persino a proposito del promettente terzetto in Concorso all’ultima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia si era arrivati a temere il peggio e a cancellare gli eccellenti auspici di luglio.
Ci piace credere che la falsa partenza nella sezione Orizzonti abbia avuto esplicito valore apotropaico, perché nemmeno 24 ore dopo, tanto nella sezione principale quanto in quelle collaterali, per le pellicole tricolore è cominciata una furiosa cavalcata scandita dagli elogi di critica e pubblico verso un Palmares che, senza vacui campanilismi, possiamo per una volta coscienziosamente definire fin troppo avaro nei confronti dei padroni di casa.
A dare il via a questa marcia trionfale, prima dell’incosciente coraggio di un Costanzo tornato in formissima e del maiuscolo capolavoro di un sempre più viscontiano Martone ancora una volta scandalosamente estromesso dai premi, è stato proprio il membro più defilato del terzetto tutto letterario del Belpaese, quello per forza di cose con minore risonanza presso il grande pubblico ma su cui i più smaliziati addetti ai lavori hanno da subito puntato di più: Anime nere, tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, è una mini-epopea delinquenzial-familiare ombrosa, ruvida e priva di compromessi che porta a un livello ancor più evoluto, complesso e universale quel cinema della violenza – declinato nel disperato riscatto sottoproletario di Saimir e nella vacua desolazione alto-borghese de Il resto della notte – che è ormai parte fondativa e caratterizzante della poetica di Francesco Munzi, mai compiaciuta né estetizzante, ma solo cupa e profondamente reale.
Per dare un volto alle tre possibili scelte di tre fratelli calabresi di fronte al sistema malavitoso organizzato – la partecipazione attiva di Luigi, l’accettazione ipocrita di Rocco e l’estraneità eremitica di Luciano -, Munzi pesca tanto dal piccolo schermo (Marco Leonardi, decisamente a suo agio nel personaggio dopo miniserie come Il capo dei capi e Il generale dei briganti, e Peppino Mazzotta, l’ispettore Fazio de Il commissario Montalbano) quanto dal palcoscenico (il volto severo del laconico Fabrizio Ferracane, forse il migliore del trio) e avvolge il tutto nella nerissima, notturna fotografia del fedele Vladan Radovic: ne esce un film coraggioso e per certi versi grandioso, lontanissimo dai parametri abituali della cinematografia nostrana, capace di confrontarsi con l’esempio dei grandi ritrattisti criminali europei (Audiard, in primis), ma anche memore dei canoni più classici e affermati – è facile rintracciare nei profili dei tre protagonisti un equivalente membro della famiglia Corleone di coppoliana memoria -, che Munzi però, con spiazzante pessimismo e con un immane senso della tragedia, ribalta con uno sviluppo anti-spettacolare dove la catarsi e la rivalsa, sempre sul punto di deflagrare, vengono di volta in volta negate e spente sul nascere, trasformando la spirale cruenta e (auto)lesionista di una congrega di pecorari dell’Aspromonte convinti di rifare Il padrino nel triste ritratto di un Paese condannato alla mediocrità e all’impotenza, sfociando in un finale dolorosissimo, cannibale ed euripideo che rimanda senza sfigurare minimamente al Fratelli di Abel Ferrara.
Con Anime nere, insomma, la produzione nostrana affila le unghie e si allontana dalle programmatiche due camere con tinello, senza per questo trascendere, dopo il bel precedente di Salvo, nelle burine tentazioni stracult di genere à la Manetti bros. e cialtroni affini, ma proponendo un’alternativa adulta, consapevole e orgogliosamente drammatica, lanciando finalmente anche in ambito extra-festivaliero – e, facendo gli scongiuri, extra-europeo, vista la sua presenza fra i papabili candidati italiani all’Oscar – uno dei nostri autori più peculiari e, nonostante il Nastro d’Argento per l’opera prima del 2006, mai sufficientemente apprezzati.
Voto 8
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