Il giovane favoloso

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Cosa significa, cosa comporta, cosa preclude l’essere giovani in Italia?
Che cosa lega il vissuto individuale del più maltrattato e vituperato protagonista delle nostre reminiscenze liceali al percorso esistenziale e alla storia collettiva dei suoi coetanei del 2014?
Ma soprattutto, se Giacomo Leopardi fosse un ventenne dell’era digitale, sognerebbe di abbandonare la casa paterna e di girare l’Europa in InterRail, sbollirebbe una delusione amorosa ascoltando musica glitch su un campo immerso nella nebbia, si lancerebbe in invettive contro tutto e tutti sulla bacheca di un qualsiasi social network?



A quattro anni di distanza dall’affresco magniloquente di Noi credevamo, Mario Martone compie un ulteriore salto all’indietro nel Secolo Romantico e completa così un ideale dittico sulla preistoria italiana come specchio e prefigurazione dell’attuale, la dimostrazione amarissima e sfiduciata della coincidenza fra gli slanci del passato e le inquietudini di adesso, un viaggio nella dimensione tempo che innesca un corto circuito socio-culturale capace di rendere compassato il contemporaneo e contingente il remoto: lontano da operazioni calligrafiche à la Bright Star e sempre più vicino a un senso trasfigurato della tragedia di viscontiana memoria, Il giovane favoloso non è la canonica, pedissequa ed esaustiva biografia del più emblematico poeta nostrano dopo Dante Alighieri, ma uno straordinario, inesauribile campionario di evocazioni, di immagini, di spunti e, naturalmente, di poesia di abbacinante modernità, il ritratto pulsante della paralisi generazionale più o meno forzata che avvolge l’Italia del presente incarnata da un ardente rappresentante storico reso insospettabile a molti da decenni di tediosi programmi scolastici, qui impersonato con insostenibile, commovente e viscerale intensità da un Elio Germano mostruoso e definitivamente affermatosi fra i maggiori interpreti europei della sua leva.

Come il suo predecessore risorgimentale, il film è trascinato da un’idea di movimento inarrestabile circondata ed estinta da un ostacolo inamovibile ed oppressivo (l’ardore dei moti rivoluzionari contro il loro inesorabile riadattamento borghese allora, il fallito superamento autocoscienziale e intellettuale dell’immobilismo dell’apparato civile e familiare oggi), ma se Noi credevamo esplorava nella sua coralità un sentimento di disincanto e di impotenza verso le sovrastrutture sociali e il sistema politico, Il giovane favoloso ne affronta la componente fragile e solipsistica, non privata in quanto legata al singolo, ma cosmica e condivisa come il pessimismo del suo soggetto (il finale con l’eruzione del Vesuvio che ispirò La ginestra, una minuscola Apocalisse che mette i brividi), conferendo agli episodi intimi e artistici della vita di Leopardi una valenza universale e per molti versi precorritrice.

Martone, inestimabile allestitore operistico gentilmente prestato al cinema, concepisce ancora una volta il mezzo cinematografico come un infinito palcoscenico (in fin dei conti, il progetto prende il via da un adattamento teatrale delle Operette morali) e scandisce drammaturgicamente la sua opera in cinque segmenti/atti distinti, dalla giovinezza recanatiana – dove si segnala un granitico Massimo Popolizio nel ruolo del padre Monaldo – al fermento accademico fiorentino con la passione non corrisposta per Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis), passando per la breve stasi romana, per gli ozi tentatori napoletani (in cui trova spazio l’attrice-feticcio Iaia Forte in una memorabile macchietta) e per la morte incombente a Torre del Greco, sfoderando inusitate ambizioni e onorandole una ad una, vantando una fedeltà alla materia da filologo e una notevole sensibilità nei confronti delle licenze (l’episodio angosciante del bordello-bolgia partenopeo, dove l’oggetto del desiderio erotico di Leopardi si rivela essere un ermafrodita) e impostando, come se non bastasse, un andamento dinamico e avvincente forse insperato per chi era abituato a L’amore molesto o a Teatro di guerra.

Grazie anche al solito, preziosissimo contributo del fidato direttore della fotografia Renato Berta, davvero scatenato quando a sottolineare la scena sono foschie o luci naturali, e alla elegiaca colonna sonora IDM del berlinese Apparat che fornisce un contrappunto di straniante anacronismo, non si avverte mai il rischio di una deriva televisiva da sceneggiato di lusso (formato di cui Martone quasi si diverte a decostruire e confutare le convenzioni a mano a mano che ci si allontana da Recanati), ma ci si sente quasi parte integrante di un processo artistico e analitico partecipativo comune ai capolavori assodati del nostro cinema, cui una tappa epocale come Il giovane favoloso andrebbe senza difficoltà ad aggiungersi pur nell’ennesima circostanza di una nuova e sempre più pesante esclusione dal palmarès festivaliero.

Voto 9

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