Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
“La maternité est sans issue ; on ne discute pas avec elle.
Ce qui fait qu’une mère est sublime, c’est que c’est une espèce de bête.
L’instinct maternel est divinement animal. La mère n’est plus femme, elle est femelle.”
(Victor Hugo, Quatrevingt-treize)
Se l’ultima fatica di Richard Linklater ci ha dato un assaggio, seppur ordinario e succube del processo creativo, del percorso formativo che porta un individuo dall’infanzia all’età adulta, non è dalla “realtà-come-se” della fiction e dai suoi inevitabili espedienti che riusciamo a trarre gli insegnamenti più entusiasmanti, ma da quella realtà effettiva che neanche lo sguardo più neutrale può restituire. Per questo motivo la carriera del canadese Xavier Dolan è, nel bene e nel male, coi suoi alti e coi suoi bassi, il più fedele e per molti versi appassionante riassunto della crescita umana e artistica cui ci è dato assistere al giorno d’oggi, la testimonianza puntuale e graduale del più determinante passaggio esistenziale di tutti, cioè quello da ragazzo a uomo.
Lo abbiamo scoperto appena ventenne con il suo J’ai tué ma mère, scagionato, se non addirittura giustificato, da quell’età così innaturale per chi affronta il cinema dall’altra parte della cinepresa, un cinema per forza di cose imbarazzante nella sua sincerità, nudo e indifeso come il mondo interiore di qualsiasi adolescente comune; lo ritroviamo solo cinque anni e già altri tre lungometraggi più tardi a chiudere il cerchio con Mommy, ed è proprio in questo apparentemente esiguo lasso di tempo e nella sua esponenziale fecondità che si può riconoscere il cineasta compiuto dei nostri giorni.
Molti avevano rintracciato già nella sua opera terza, il fluviale Laurence Anyways, la prova della maturità, ma, in particolare dopo il mezzo passo falso del successivo Tom à la ferme, diventa chiaro che è in Mommy che va visto il momento di svolta della poetica di Dolan, il superamento, estetico e concettuale, di pressoché tutti i punti in sospeso della sua produzione, dall’ipercitazionismo selvaggio e imbizzarrito tipico del cinefilo alle prime armi al ruolo attivo e meta-testuale dell’aspect ratio, fino alle varie incarnazioni del complesso materno, di cui Mommy rappresenta il compendio.
Per cominciare, il metteur en scène québécois sembra voler tornare sul “luogo del delitto” del suo esordio cannibale e virulento, girandone una specie di variazione sul tema con la consapevolezza, la razionalità e l’autonomia del venticinquenne smaliziato di oggi, non più dalla inquieta prospettiva in primissima persona del figlio teenager (rafforzata peraltro dalla sua stessa partecipazione in veste di protagonista), ma dal più studiato e ponderato punto di vista di quella figura materna vittima delle recriminazioni del passato. Come se non bastasse, per personificare quest’ultima Dolan sceglie nuovamente il volto di Anne Dorval, e, affidandole a questo giro la parte di personaggio di primo piano, pare rinunciare a quell’aspro narcisismo con cui, anche per interposto alter ego, ha amato calarsi nelle sue storie.
Dolan si mette da parte, quindi, e per la prima volta i suoi personaggi, pur ancora definiti con una certa dismisura nelle loro dinamiche, suonano autentici, credibili e sfaccettati, più complessi degli archetipi monodimensionali e limitati al suo universo personale di un tempo, capaci di mantenere il film in equilibrio ben più dello sviluppo ondivago degli eventi, tanto da rendere superflui i piccoli accorgimenti di sceneggiatura, come l’ambientazione in un prossimissimo futuro vagamente distopico, dettaglio di cui nemmeno ci si accorgerebbe, non fosse specificato dalla didascalia iniziale. Il discorso di Dolan si fa puramente sensibile, trainato da un terzetto di caratteri – la madre vedova Diana, significativamente soprannominata Die (Anne Dorval), l’instabile e fresco di riformatorio figlio Steve (Antoine Olivier Pilon) e la vicina di casa balbuziente Kyla (Suzanne Clément, di nuovo surrogato genitoriale dopo J’ai tué ma mère) – degno di un kammerspiel fassbinderiano e perfettamente assortito, libero di interagire in questa tragicommedia edipica fatta di gesti brutali e convulsi come la natura animalesca e simbiotica dell’amore madre-figlio.
Ma Mommy è soprattutto un’opera di abbacinante intimità e dalle precisissime scelte figurative che ne amplificano l’impatto emotivo.
L’inusuale formato 1:1, che ridimensiona la visuale a un quadrato perfetto per la durata pressoché totale del film, è in qualche modo sintomatica degli imbastardimenti iconici della moderna “generazione Instagram”, ma vuole contemporaneamente limitare l’attenzione di chi guarda a uno spazio ristretto, dominato essenzialmente dai primi piani e senza le “divagazioni” del widescreen. Una decisione che potrebbe dirsi a tratti indolente, una scappatoia alla responsabilità della costruzione dell’inquadratura, ma indubbiamente vincente e caratterizzante, immersiva quanto alcuni esperimenti sokuroviani (viene da pensare a dolce…, nello specifico), ed è con inusitata potenza meta-linguistica che, per un breve preziosissimo minuto, l’occhio accoglie l’imprevedibile spalancamento orizzontale che fa da cesura alle due sezioni del film, un escamotage tanto elementare quanto galvanizzante.
È anche da elementi come questi, però, che si evince che il tragitto del giovane regista necessita ancora di minimi assestamenti: meno edotto, per sua spudorata ammissione, in materia di cinema di molti suoi colleghi, Dolan si lascia guidare fin troppo da quell’istinto emozionale e da quella carica sentimentale che rendono il suo linguaggio non totalmente ripulito dall’artificio, ricorrendo a trucchetti di facile effetto che guardano a Wong Kar-Wai (una delle poche, onnipresenti influenze dichiarate) ma che, abusando di ralenti, sequenze di montaggio da videoclip e canzonette eterogenee – per di più con un’apparente confusione fra intradiegesi ed extradiegesi -, rischiano l’ipertrofia e la stucchevolezza.
Forse ci vorrà un po’ prima che Dolan trovi quella corroborante dose di cinismo e di distacco in grado di trasformarlo nell’autore maiuscolo che è destinato a diventare, ma per ora possiamo pacificamente soprassedere su questi difetti veniali e goderci il cammino di questa straordinaria, disarmante anomalia d’oltreoceano.
Voto 8
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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Laurence Anyways | Movielicious