Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
C’era una volta il cinepanettone.
Era il 1983 e i fratelli Vanzina, sulla scorta del successo del loro Sapore di mare, radunavano un cast composto, in egual misura, da giovani comici mutuati da quel film (Jerry Calà, Christian De Sica) e navigati caratteristi (Riccardo Garrone, Mario Brega, Guido Nicheli) e andavano così a costruire – chissà poi in maniera quanto consapevole – il canovaccio su cui avrebbe poggiato le basi il brand più giustamente criticato e vilipeso del cinema italiano a venire.
Nel 1990, il passaggio di consegne tra i Vanzina e Enrico Oldoini in cabina di regia attestava la trasformazione da puro sequel a vero e proprio franchising che reiterava se stesso, anno dopo anno, semplicemente cambiando la data accanto al titolo e aggiornando location e attori di turno (nel ’91 ci finì dentro anche un confuso e non del tutto consapevole Alberto Sordi) dove le uniche costanti erano rappresentate dall’estrema esilità delle storie raccontate (per lo più roba di corna e grossolane gag fisiche) e della presenza fissa della coppia formata da De Sica Jr. e Massimo Boldi.
E dell’enorme (e solo in parte spiegabile) successo di pubblico, ché a Natale si sa, la gente vuole ridere.
La coppia Boldi-De Sica scoppiò nel 2006, ma il successo commerciale dei cinepanettoni parve non risentirne affatto.
Tutto ciò fino allo scorso anno e all’orrido Colpi di fortuna, che segnava una nuova scissione, stavolta tra il produttore Aurelio De Laurentiis e quello che, nel frattempo, era diventato il regista ufficiale della serie, Neri Parenti.
Con il risultato che quest’anno, di cinepanettoni, ce ne ritroviamo addirittura due.
Questo Ma tu di che segno 6? è il primo ad uscire in sala ed è brutto, di una bruttezza che non fa sconti.
In attesa di valutare anche Un Natale stupefacente (evidentemente, dopo la rottura, De Laurentiis ha ereditato l’originalità dei titoli) il film di Neri Parenti rappresenta per ora il punto di non ritorno della deriva paratelevisiva di certo cinema di intrattenimento.
L’ipotesi più plausibile è che il soggetto in questione sia stato steso durante una colazione, nella pausa tecnica tra cappuccino e maritozzo.
Non c’è nulla infatti in questo filmetto che possa strappare, non dico una risata, ma neanche un sorriso a denti stretti che sia uno.
Non una singola battuta. Niente.
Tutto poggia sul livello zero della comicità, dallo scambio di persona alla caduta rovinosa (anche in senso lato) di un Gigi Proietti evidentemente poco propenso a considerare la propria carriera come un valore da preservare.
Addirittura qui torna l’umorismo scatologico che era stato messo da parte in seguito alle critiche di eccessiva volgarità piovute sulla serie verso la metà degli anni novanta e gli autori della sceneggiatura (i fratelli Vanzina devono aver pensato che tre film all’anno erano un po’ pochini e così hanno scritto anche il copione di questo obbrobrio) cercano di convincerci che Massimo Boldi che va in ospedale per un taglietto e finisce per essere operato erroneamente di emorroidi sia una cosa suscettibile di farci ridere.
A questo si aggiunga poi tutto un armamentario di infelicissime battute da caserma su gay, trans, donne e minoranze etniche (che, a 2014 quasi finito, non sono neanche poi così tanto minoranze)
e un’idea di cinema talmente scollata dal tempo e dai cambiamenti che la società ha subito negli ultimi 30 anni che, se non irritasse, potrebbe quasi fare tenerezza, con il suo product placement piazzato un po’ ovunque e le parolacce utilizzate un tanto al chilo, quasi fossero motore di risate garantite.
Sei lì che guardi Salemme riproporre stancamente i cliché del meridionale geloso e Ricky Memphis fare il troglodita (in una scena etichetta una ragazza poco avvenente come “sta scureggia”, per dire) e l’unica cosa che riesci a chiederti è se davvero, in sede di scrittura, gli autori possano aver pensato che queste cose divertano (ancora) qualcuno.
Esci dal cinema intontito e sfiancato dopo una novantina di minuti che sembrano ore e un pensiero, all’inizio timido e poi sempre più insistente, si fa largo nel vuoto pneumatico lasciato dalla visione di Ma tu di che segno 6?.
Il primo Vacanze di Natale, al confronto, era un mezzo capolavoro.
Voto 2
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