American Sniper

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Diavolo di un Clint.
Sei lì che non hai ancora metabolizzato del tutto la delusione per quel Jersey Boys, opera decisamente interlocutoria uscita in sordina giusto prima dell’estate, quando pensi che stavolta il materiale per un mezzo capolavoro ci sia proprio tutto.
C’è la biografia (best seller negli Stati Uniti) di Chris Kyle, cecchino americano dalla mira infallibile, con tutto il suo carico di ambiguità tra patriottismo e sensi di colpa e già immagini come lo sguardo di Eastwood possa portare alla luce e amplificare le piccole ma significative contraddizioni di una storia così profondamente a stelle e strisce.
C’è Bradley Cooper, attore capace, nell’ultimo lustro, di sbagliare ben poco in termini di scelte – forse giusto il recente e pessimo Una folle passione – e che, in qualche modo, ti sembra già una garanzia.
E’ quindi con le migliori intenzioni che ci si accosta al nuovo film dell’ultimo regista classico americano vivente e con il desiderio, nemmeno tanto recondito, che questo possa regalarci un colpo di coda, un’impennata d’orgoglio a seguito di progetti evidentemente poco suoi (ché Hereafter, al netto dei giudizi di valore, era e rimane un film di Steven Spielberg) o comunque fuori fuoco (immagino sia chiaro a tutti che Invictus gli è stato perdonato solo perché immediatamente successivo all’immenso Gran Torino).



E invece nulla. Tutto rimandato a un’altra volta.
Sin dalle prime scene appare chiaro che American Sniper non lavora come dovrebbe: basti pensare alla didascalica progressione narrativa con cui Chris Kyle passa, in brevissimo tempo, dall’essere un cowboy grezzo e anche un po’ sfigato (nulla che ricordi neanche alla lontana il Matthew McConaughey di Dallas Buyers Club comunque) a eroe nazionale e a come questa venga gestita in maniera talmente telefonata da sembrare il pilot di una serie TV anni Novanta.
Poi, quando l’azione si sposta sul campo di battaglia vero e proprio, il problema diventa un altro e non ha più a che fare soltanto con la possibilità – che intanto è diventata quasi una certezza – che American Sniper possa essere un film poco riuscito, ma con il cotè politico che informa l’intera opera e la mina dall’interno.
C’è un patriottismo così tronfio e tagliato con l’accetta che forse potresti aspettarti giusto in un film di Michael Bay, ma mai nell’opera di Clint Eastwood , autore da sempre particolarmente attento alle sfumature di senso e alle dissonanze etiche.
E se le responsabilità principali sono in massima parte ascrivibili a una sceneggiatura piatta e unidimensionale, scritta dal carneade Jason Hall, autore di area paratelevisiva con, in curriculum, puntate di C.S.I. Miami e Senza traccia, la domanda che viene spontanea riguarda i motivi che possano aver spinto un regista osannato, pluripremiato e senza più nulla da dimostrare a occuparsi di un tema spinoso come la guerra in Iraq in maniera così poco sfaccettata e facilona.

Accade quindi che la visione di American Sniper riporti alla mente altri casi in cui Hollywood si è occupata dello stesso argomento con risultati altissimi (basti citare il bellissimo The Hurt Locker di Kathryn Bigelow o il dolente Nella valle di Elah di Paul Haggis) o comunque mai meno che buoni (Redacted di Brian De Palma) e la delusione si fa, se possibile, ancora più cocente.
Tutto ciò volendo soprassedere su quella che, alla luce del risultato generale, potrebbe apparire come una quisquilia, come l’inspiegabile scelta di Sienna Miller per un ruolo che contempli una qualsiasi forma di capacità attoriale.
Proprio nulla da salvare dunque?
Non proprio, perché qualcosa di buono c’è pure e, trattandosi di Clint Eastwood, ci mancherebbe altro.
C’è un Bradley Cooper assai intenso che regge, da solo, il peso del film per tutta la sua (eccessiva) durata. E c’è poi, quasi alla fine, l’unica sequenza davvero memorabile di questo American Sniper, quella in cui una tempesta di sabbia avvolge un manipolo di marine bloccati sul tetto di un edificio mentre un numero sempre crescente di milizie nemiche sopraggiunge dalla strada, e rende l’azione quasi del tutto imperscrutabile. Ed è quanto meno curioso che un film completamente incentrato sul concetto di visione – il protagonista è pur sempre un cecchino – raggiunga il suo climax estetico ed emotivo nell’unico momento in cui la realtà viene di fatto negata allo sguardo dello spettatore.
E’ un’intuizione molto eastwoodiana che, da sola, vale tutto il film.
Ma non gli garantisce la sufficienza. Per quella tocca aspettare un’altra volta.
Diavolo di un Clint.

Voto 5

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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