Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Giulio Verme (Maccio Capatonda) cresce all’ombra di due genitori teledipendenti e, una volta adulto, diventa per contrasto un idealtipo di cittadino consapevole, che rigetta qualunque forma di disimpegno per sposare le cause più disparate, dalla generica salvaguardia dell’ambiente alla tutela del babbuino.
Ma più di tutto Giulio è letteralmente ossessionato dall’idea di sporcizia, reale e metaforica, che infesta la società.
Il suo sdegno verso il malcostume e l’involgarimento generale ha raggiunto un tale parossismo da impedirgli di prendere alcuna iniziativa. In Giulio tutto si risolve in una logorrea disfattista che mina tutti i suoi rapporti sociali, da quelli con i vicini di casa alla relazione con Franca, costretta a guardare programmi trash di nascosto per non incorrere nelle sue ire.
L’incontro casuale con l’amico d’infanzia Alfonzo (Herbert Ballerina e il nome non sembri un refuso) e l’assunzione di una pillola che riduce l’utilizzo del cervello dall’usuale 20% ad un misero 2%, trasformano Giulio in un altro idealtipo, quello dell’italiano medio più ignorante e vizioso che si possa immaginare, dedito esclusivamente al culto dell’apparenza e del tutto insensibile a qualsiasi tipo di istanza sociale.
Lo scollamento comportamentale tra questi due antitetici Giulio Verme avrà conseguenze inaspettate.
Il rischio maggiore nel passaggio di Marcello Macchia (alias Maccio Capatonda) dal formato breve dei suoi esilaranti finti trailer (L’uomo che usciva la gente, per citarne solo uno) e della serie TV Mario all’atteso lungometraggio, era che la scatenata vis comica dell’autore potesse non adattarsi perfettamente a un minutaggio maggiore e perdere così qualcosa in termini di sia di immediatezza che di mordente.
Alla luce del risultato finale, tale preoccupazione non era da considerarsi poi così peregrina.
Le intuizioni di Capatonda infatti, nell’arco dei 100 minuti di durata del film, tendono a livellarsi fino a suggerire l’effetto che potrebbe dare la visione in rapida sequenza di tutto il suo materiale pregresso.
Si ha come l’impressione, in altre parole, che il neo-regista abbia confidato troppo nel potere dei singoli personaggi (la maggior parte dei quali tra l’altro già noti) senza premurarsi di costruire una solida cornice filmica all’interno della quale inserirli, finendo con l’inanellare una serie di gag anche molto riuscite se prese singolarmente, ma meno performanti di quanto era lecito aspettarsi, una volta giustapposte.
Questo per quanto riguarda la visione d’insieme.
E per dire che, qualora ci si fosse aspettati da Maccio Capatonda, un netto upgrading rispetto ai suoi standard televisivi, ciò non accade o accade solo in parte.
E’ però anche doveroso sottolineare come il film assolva pienamente alla sua funzione primaria riuscendo a divertire a livelli ai quali la quasi totalità delle commedie italiane non riesce nemmeno ad avvicinarsi.
La lucida cattiveria con cui l’autore fustiga le derive più volgari della televisione e della società in generale non accenna ad alleggerirsi nemmeno in virtù di quello che poteva essere un facile veicolo per un ipotetico ampliamento del proprio pubblico di riferimento e questo, al di là delle critiche, è comunque una garanzia della buona fede e della genuinità che informano il progetto.
Italiano medio è lontano anni luce sia dalle stanche e reiterate macchiette di Aldo, Giovanni e Giacomo che dal cerchiobottismo populista di Checco Zalone che pur stigmatizzando, incarnandolo appieno, lo stesso stereotipo negativo di italiano medio, diventa idolo di quella stessa categoria di persone che non si accorge di essere rappresentata.
Ecco, Capatonda se non altro ha il merito di essere talmente esplicito nella sua presa in giro (a tratti rasenta anche quella che molti chiamerebbero scorrettezza) che questo rischio proprio non lo corre.
Almeno spero.
Voto 6
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