Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza

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Un film, 39 episodi.
Ci sono Sam e Jonathan, i più tristi venditori ambulanti di articoli per il divertimento (oggetti per lo più obsoleti come denti da vampiro e maschere di carnevale), una ballerina di flamenco che palpeggia uno dei suoi studenti, tre fratelli che cercano di strappare una borsetta piena di gioielli alla madre sul letto di morte, alcuni anziani colonialisti che chiudono gli indigeni in un cilindro che ruota su un braciere acceso, l’armata di Carlo XII che fa una sosta al bar per una birra prima della battaglia e tanti altri che sarebbe impossibile e anche ingiusto citare.
39 minuscole storie di poca vita, molta morte e (stra)ordinaria follia catturate nell’attimo stesso in cui accadono da una macchina da presa sempre e stoicamente fissa.



A sette anni da You, The Living, Roy Andersson completa la sua trilogia dell’essere umano (iniziata nel 2000 con Canzoni del secondo piano) e ci consegna questo formidabile e tragicomico mosaico, premiato con il Leone d’oro per il Miglior Film all’ultimo Festival di Venezia, in cui ogni tassello è solo all’apparenza slegato dagli altri mentre, tutti insieme, restituiscono un quadro straordinariamente vivido delle possibili pieghe grottesche che, a volte, la vita prende.
Va detto che sulle prime, nonostante sia puntellato da numerose scene di carattere fortemente ironico, la fruizione di Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza può non risultare facilissima, un po’ per la staticità del punto di vista che rende ogni singolo episodio qualcosa di molto simile a un quadro solo leggermente animato (evidente in questo l’influenza della pittura fiamminga, insita già nel titolo preso in prestito da un dipinto di Bruegel il Vecchio ma anche, per molti versi, quella del realismo hopperiano) e, in parte, anche per un uso dello humour a cui, come spettatori, non siamo affatto abituati.
Il punto di riferimento più prossimo potrebbe essere il cinismo dei Monty Python, reso però ancora più gelido dal rigido clima della periferia di Göteborg.

Ecco quindi che ogni risata ha un suo contraltare tragico dal peso specifico non indifferente ed è chiaro quasi da subito come il fine di Andersson non sia affatto ludico, ma teso piuttosto ad attestare l’avvenuto  raggiungimento di qualsiasi capolinea morale e, più in generale, virtuoso da parte dell’essere umano. Un capolinea che si trova nel punto esatto in cui umorismo e tragedia, per un attimo, si incontrano.
Il registro vagamente leggero, semmai, ha il risultato di rendere ancor più spietato il nichilismo che fa da sfondo all’opera e anche la patina onirica, amplificata dal pallore di molti dei personaggi e dal loro recitare narcolettico, finisce col farli assomigliare a fantasmi delegati ad ammonire lo spettatore su una serie di derive alle quali comunque è già troppo tardi per rimediare.
La stessa cornice scenica – spazi angusti e spesso quasi del tutto spogli – contribuisce in modo forte a rendere l’idea di una desolazione verso cui l’uomo sembra essersi spinto a una velocità talmente folle da non rendersi neanche conto di essersi spostato e, in quest’ottica, la scelta dell’autore di un immobilismo visivo privo anche del minimo movimento di macchina risulta geniale nel suo suggerire il senso di un “dopo” incontrovertibile e molto poco desiderabile.

Voto 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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