Life Itself

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È in un momento particolarmente controverso e sintomatico per il cinema di consumo che si fa largo nelle sale italiane un film come Life Itself: ha ancora senso, a fronte degli oltre 250 milioni di dollari incassati nell’arco di una settimana da una calamita per stroncature come 50 sfumature di grigio, parlare di rilevanza e di centralità della critica? Nell’epoca di Twitter e della proliferazione delle webzine amatoriali, che peso ha assunto la voce del mediatore professionista fra il prodotto finito e la platea?



Basta ricordarsi delle reazioni piccate dello spettatore medio al vincitore festivaliero di turno (uno su tutti l’epocale The Tree of Life, ma pure l’ultima fatica di Roy Andersson, uscita oggi, vedrà l’iniziale curiosità delle masse trasformarsi inesorabilmente in perplessità) o sintonizzarsi sul clima di accondiscenza e di clientelismo di una puntata a scelta del salotto marzulliano di Rai1 per accorgersi del ruolo sempre più ininfluente, se non spesso asservito, del giornalismo cinematografico nella coscienza collettiva e nel percorso commerciale di un’opera filmica.

Life Itself ci presenta sotto forma di diario il piano professionale e personale della vita di Roger Ebert, uno dei più popolari rappresentanti della categoria, scomparso nel 2013 al termine di una lunga battaglia contro un cancro alla tiroide che aveva fortemente debilitato il suo profilo pubblico senza per questo frenare la sua quarantennale attività. Ma il ritratto firmato dallo statunitense Steve James esamina solo in superficie gli aspetti più problematici e deontologici dell’analisi teorica del cinema e di quanto essa si rifletta nel sentire comune: innanzitutto l’autore di Hoop Dreams stabilisce come fulcro dell’operazione lo stadio terminale della vita del cronista, soffermandosi in particolare sugli ultimi, estenuanti cinque mesi di ospedalizzazione e illustrando senza sconti, con una prospettiva che vorrebbe dirsi intima ma che rischia frequentemente di cadere nella trappola della morbosità e nel pietismo, le varie tappe del suo decadimento fisico, con il risultato di indirizzare eccessivamente l’attenzione sull’uomo (anzi, sul martire) a scapito del critico, dei suoi traguardi e delle sue contraddizioni.

Quando ciò non accade, tuttavia, queste ultime vengono spazzate via nel giro di poche battute, specie il suo passato da alcolista e il suo passaggio all’attività televisiva che venne da molti vista come l’inizio di una degenerazione populista che avrebbe presto coinvolto l’intero settore, e a rimanere è più che altro un’enumerazione di successi di taglio pesantemente agiografico, sottolineata dagli interventi di veterani come Scorsese (produttore esecutivo, tra l’altro) ed Herzog o di nuove leve come il Ramin Bahrani di 99 Homes (visto a Venezia71), la Ava DuVernay di Selma e lo stesso James, tutti a rendere grazia di una carriera avviata e benedetta dal suo consenso trascendendo quasi nella piaggeria, senza voci fuori dal coro (quella di Michael Cimino, per dirne una, che si vide allontanato a lungo dal set anche per colpa di recensioni ingiuriose e infamanti come quella di Ebert per il suo capolavoro I cancelli del cielo) a deturpare il santino.

Per ritrovare un po’ di spontaneità e di pepe bisogna aspettare quindi l’ampio capitolo dedicato al rapporto con l’amico/nemico Gene Siskel, con cui il giornalista instaurò una proficua, bellicosa e leggendaria collaborazione sul piccolo schermo per un quarto di secolo, fra discussioni accesissime e storie di rivalità che, amplificando le debolezze di entrambi (la spocchia del primo in quanto perfettamente integratosi nel jet-set e nella mondanità, il complesso di superiorità del secondo derivato dal conseguimento del Pulitzer), restituiscono l’immagine autentica, sfaccettata e vagamente malsana del reale cinefilo di tutti i giorni, ma si tratta solamente di parentesi, peraltro isolate e poco sviluppate (Ebert continuò il suo show per altri sette anni dopo la morte del partner, stroncato da un tumore al cervello e subito sostituito da Richard Roeper, ma su quella fase cala il silenzio).

Il punto è che il materiale di partenza del progetto, l’autobiografia omonima pubblicata nel 2011, è adattato da James con troppo disordine e con troppa dispersività, e ciò che viene a mancare è proprio quella visione della Settima Arte che, con i suoi pregi e difetti, distingueva Ebert dai suoi contemporanei, riassunta con non più di qualche frammento enciclopedico sparso qua e là che non dice quasi nulla sul suo stile di fare critica e sulla peculiarità del suo linguaggio, ancor meno sul suo passaggio dalla carta stampata alla pubblicazione online, tradizione oggi gestita discutibilmente da uno stuolo di successori che ha trasformato il nome del fondatore in un arbitrario marchio d’approvazione per i propri articoli.
Così, come nel caso dell’affine – e altrettanto levigato – La teoria del tutto, sorge il dubbio che a ergersi in primo piano non sia tanto il protagonista, quanto la sofferente, pazientissima, amorevole compagna della situazione, che qui è la moglie, esecutrice testamentaria e promoter Chaz, cui è affidato il lato più sentimentale e privato della pellicola, non soltanto la dimensione meno interessante e più ricattatoria, ma soprattutto l’ostacolo che ci impedisce di approfondire le diverse sfumature e lo spessore della personalità di Ebert.

Forse James sperava di realizzare con il suo soggetto l’equivalente di ciò che Wim Wenders, con l’arrischiatissimo esperimento di Lampi sull’acqua, riuscì a comunicare filmando gli ultimi giorni di Nicholas Ray, ma qui, fra una confezione canonica trainata da interviste sussiegose, da transizioni scolastiche a base di servizi fotografici tirati a lucido e da una colonna sonora didascalica che, più che commentare, imposta invasivamente il tono dell’insieme, si ha l’impressione di una smisurata riverenza e di un’impossibilità a mantenere le distanze dalla materia, due errori fatali per qualsiasi documentarista che si rispetti.

Voto 5

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