Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Ha bisogno di pause, il cinema di Bennett Miller, del tempo che intercorre tra una storia e l’altra. Gli ci sono voluti sette anni, dopo aver esordito con il doc The Cruise, a realizzare il suo primo film “importante”, Truman Capote – A sangue freddo, che è valso l’Oscar a Philip Seymour Hoffman. E prima di Moneyball, 2011, di anni ne sono trascorsi altri sei. Foxcatcher segna quasi un record per il regista newyorkese: il film era già pronto nel 2013, anche se la Sony ne ha rimandato la distribuzione internazionale al 2014. Come fece con Seymour Hoffman, che prima di Capote era essenzialmente un caratterista, e con Jonah Hill che prima di Moneyball era il tipo grassoccio della scuderia di Judd Apatow (Suxbad – Tre menti sopra il pelo, Funny People), Miller questa volta ha scommesso su Steve Carell, attore noto per i suoi ruoli brillanti (Quarant’anni vergine, Notte folle a Manhattan), trasformandolo in un milionario schizofrenico dallo sguardo fisso e sfuggente. E, anche questa volta, ha vinto.
Presentato In Concorso a Cannes e premiato con il Prix de la mise en scène (premio alla regia), Foxcatcher racconta la storia vera dei fratelli Mark e Dave Schultz (Channing Tatum e Mark Ruffalo), due campioni di lotta libera, enrambi medaglia d’oro alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984. Un giorno Mark riceve la telefonata di John du Pont (Steve Carell), un eccentrico milionario e filantropo che lo invita a prepararsi nella sua tenuta e ad unirsi al Team Foxcatcher, che lui stesso ha istituito e allena per i prossimi campionati del mondo. L’invito di du Pont nasconde però un’attrazione morbosa nei confronti di Mark e il ragazzo, senza la vicinanza del fratello maggiore, allenatore e mentore, inizierà un percorso che lo porterà presto a smarrirsi.
I film di Bennett Miller appartengono a quel genere di storie che si attendono non tanto con ansia, quanto con docile trepidazione. Con una concezione del tempo lineare insolitamente pacata e composta, il regista americano confeziona un dramma psicologico mascherato da sport movie, tutto incentrato sui rapporti interpersonali tra i protagonisti. Lo script sottile (firmato da E. Max Frye e Dan Futterman) e la regia discreta fanno di Foxcatcher un film di attori. Meglio, di comprimari. E che comprimari. Se la trasformazione fisica più strabiliante appartiene sicuramente a Steve Carell, che un eccelso lavoro di make-up ha reso identico al vero John du Pont, è Mark Ruffalo a sbalordire, regalando quella che è probabilmente la migliore performance della sua carriera. A lui l’arduo compito di interpretare il personaggio più equilibrato, “normale” e anche il più complesso. Se Tatum può aggrapparsi alla propria fisicità e Carell allo stravolgimento del volto, Ruffalo non ha altro se non la sconcertante consuetudine e l’incredibile stabilità del suo Dave, leader naturale che non ha bisogno di altro che non della propria consapevolezza per affermarsi, in famiglia come nello sport.
Nel raccontare questo fatto di cronaca che negli anni Ottanta riempì le prime pagine dei giornali per la sua tragica e inaspettata conclusione, Miller ha optato per uno stile registico minimale (nulla di più distante dai virtuosismi esibiti da Iñárritu in Birdman, tanto per intenderci), che tende quasi a eclissarsi dietro alle performance dei suoi attori, facendo largo uso della profondità di campo e lavorando di cesello su musiche e suono. Per lui lo sgretolamento del sogno americano passa per il non detto e, attraversando quel sottotesto silenzioso, arriva dritto alle dinamiche di controllo e di bilanciamento fondamentali tanto nella lotta libera quanto nella vita. Armonia ed equilibrio. La chiave è tutta lì.
Voto 8
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
Con uno stile asciutto ed essenziale, Bennett Miller ci racconta, a modo suo, lo sgretolarsi del sogno americano.
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