Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Dopo i notevoli Un giorno a settebre (documentario vincitore dell’Oscar nel 2000 incentrato sui fatti avvenuti il 5 settembre 1972 durante le olimpiadi di Monaco, particolarmente apprezzato e saccheggiato dallo Spielberg di Munich), L’ultimo re di Scozia, State of Play e il discreto The Eagle, lo scozzese Kevin Macdonald torna dietro la macchina da presa per affrontare ancora una volta i conflitti e le risposte emotive degli esseri umani in situazioni estreme. Magari inserendo nella vicenda un bottino da recuperare tanto ricco da far gola a chiunque. Soprattutto a chi, come il capitano di sottomarini Robinson (Jude Law), viene licenziato in tronco dalla società di recupero relitti per cui lavora, dopo aver sacrificato per anni vita e affetti. Disoccupato e abbandonato dalla moglie e dal figlio, Robinson decide così di tentare un’impresa folle e sconsiderata: recuperare l’immenso carico d’oro contenuto in un sommergibile tedesco promesso da Stalin a Hitler, che dal 1941 giace sul fondo del Mar Nero. Radunata una squadra metà inglese metà russa di rifiuti sociali, Robinson parte per la missione. Ma più il tesoro sommerso si avvicina, più l’avidità dei membri dell’equipaggio prende il sopravvento sul buonsenso e sul gioco di squadra, trasformando l’avventura in una terribile caccia all’uomo tra le anguste lamiere di un sottomarino.
Nella sua carriera di cineasta Macdonald ha sempre alternato fiction e documentario senza mai dare eccessivo peso alla distinzione tra i due generi. Il suo cinema del reale non si è mai fatto problemi ad utilizzare apertamente elementi di finzione, esattamente come il suo cinema di fiction ha sempre preso in prestito dei tasselli di realtà, amalgamandoli agli elementi narrativi con grazia e disinvoltura. E’ probabilmente questa la sua peculiarità più spiccata, che gli ha sempre consentito questo atteggiamento ibrido e ben ancorato più che al contesto, all’aspetto individuale e psicologico dei personaggi delle storie che racconta. E Black Sea non fa eccezione. Così come ne L’ultimo re di Scozia il regista si era concentrato sull’analizzare il male originato dalla violenza del sanguinario dittatore ugandese con le fattezze di Forest Whitaker, piuttosto che sulla situazione politica innescata da quel regime, in Black Sea pone al centro del narrato le storie dei singoli marinai della ciurma, un gruppo di proletari disperati alla ricerca di riscatto verso i potenti, tutti accecati da un’ipotesi di potere.
Portando sullo schermo la prima sceneggiatura dell’affermato autore teatrale Dennis Kelly (Debris, After the End), Macdonald costruisce un thriller dalla suspense spietata che ha il suo momento più alto durante la scena del recupero del carico d’oro, dove la tensione si taglia con il coltello. Il Mar nero del titolo diventa così, oltre che luogo fisico, anche un luogo della mente, che trascina sul fondo la bramosia dell’equipaggio trasformandola in furia omicida. Peccato che negli ultimi venti minuti il personaggio di Law, costruito con notevole realismo per tutto il film, viri verso lidi sconvenientemente eroici e si abbandoni un po’ troppo ai ricordi della vita in superficie, quella felice, con tanto di pistolotto sul valore della famiglia.
Voto 6,5
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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