Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Se il ricorso alla grafica computerizzata ha permesso di ridefinire l’immaginario dell’action contemporaneo al punto di assuefarci allo stupore e, riferendoci nello specifico al franchise di maggior successo della stagione, di ammortizzare cinicamente il tabù della morte, è evidente che nel campo dell’intrattenimento filmico non tutto sta andando per il verso giusto.
Dal deterioramento della magia jacksoniana, arrivato dalla cosmogonia sbalorditiva de Il signore degli anelli al carrozzone plasticoso de Lo Hobbit, all’olocausto meccanizzato del cinema di Michael Bay, si è fatta a mano a mano sempre più pericolosamente stretta quella convergenza tra fantasia e finzione che ha ridotto la questione a pura competizione tecnologica fondata sulla supremazia del mezzo, relegando l’elemento umano al minimo indispensabile.
L’annunciato ritorno sulle scene dell’australiano George Miller dopo la parentesi animata del dittico di Happy Feet suonava già a prescindere come una precisa dichiarazione d’intenti e come un chiaro avvertimento nei confronti dell’establishment, un ripristino delle regole della spettacolarizzazione commerciale alla luce non dell’ipertrofia artificiale di oggi, ma della follia artigianale di ieri, quella dei budget risicati e degli espedienti di messinscena, dell’autenticità delle location e della spericolatezza dell’allestimento, tutti ingredienti che hanno trasformato la sua trilogia di Mad Max in un modello di mestiere cinematografico e di creatività ruspante.
A trent’anni esatti da Mad Max – Oltre la sfera del tuono, Miller pare uscito da una cella criogenica, ignaro e incurante delle metamorfosi e degli imbastardimenti subiti dal genere che lui stesso ha contribuito a istituire e a canonizzare, libero di sporcarsi le mani e di scaraventare i suoi giocattoli a destra e a manca in una sequela impazzita di esplosioni, acrobazie e accelerazioni senza la gabola della CGI a ogni costo (usata soltanto in extrema ratio, come nel caso della sequenza della tempesta di sabbia), ma con un incosciente sistema di riprese dal vero di inusitata forza coreografica (il regista della seconda unità Guy Norris, già alle prese con la Terra di Mezzo, è in questo senso il vero valore aggiunto della troupe).
Finché Mad Max: Fury Road, quindi, rimane fedele alla propria identità di lungo e ininterrotto inseguimento su ruote, aderendo alla natura puramente cinetica e dinamica dell’opera, si respira l’atmosfera di certi classici aldrichiani – L’imperatore del nord, in particolare – e l’accumulo orgiastico di trovate assolutamente deliranti (una su tutte, il bucinator che accompagna la battaglia non con i consueti squilli di tromba, ma con assoli e riff stoner di chitarra distorta), tiene la giostra in moto eccesso dopo eccesso. E’ in quei rari momenti di tregua, invece, che si evincono le debolezze alla base della pellicola, che non riesce a replicare l’equilibrio dei tratti base del cinema di genere che aveva contraddistinto e reso più compiuta la seconda parte della saga, Interceptor – Il guerriero della strada, ma che si accontenta di restare sul generico e sull’ambiguo, forse in visione dei seguiti già previsti, con contraccolpi piuttosto gravi sulla personalità dei suoi protagonisti. Quali sono le origini dell’eroe, chiaramente alternative a quelle dell’episodio capostipite? Da che cosa vuole redimersi la guerriera Furiosa (Charlize Theron), sua compagna di viaggio?
Privato di quella back-story che costituiva la prima metà di Interceptor, il carisma e l’umanità dell’ex-poliziotto Max Rockatansky (un Tom Hardy ben al di sotto del suo potenziale) escono fortemente ridimensionati e lo relegano paradossalmente a un piano secondario rispetto alla sua controparte femminile – cui, non a caso, è già stato intitolato il sequel -, a tutti gli effetti la vera mattatrice di un film non tanto di Mad Max, quanto à la Mad Max, capace di offrire nuove, succose variazioni sul tema di contesti e personaggi già radicatisi nell’universo distopico (notevole soprattutto il decrepito Immortan Joe, interpretato da quel Hugh Keays-Byrne che fu già antagonista di Gibson in Interceptor, ma anche il cresciuto Nicholas Hoult di About a Boy nei panni del comic relief Nux non sfigura). Probabilmente anche a causa di un ventennio abbondante di stallo realizzativo durante il quale si è passati da un progetto di sequel a uno di remake fino a optare definitivamente per il reboot, Fury Road si rivela invece più incerto sullo sviluppo del plot, fattosi semplice tappezzeria, e sui lati ancora inesplorati del microcosmo di Miller, specie il quintetto di spose scarrozzato da Furiosa, che vorrebbe rappresentare il lato femminista e muliebre di un incubo post-catastrofico disperatamente maschile per tradizione e che nei fatti è solo una comitiva di supermodelle perennemente in tiro e impassibili all’afa, al fuoco, ai proiettili e alla siccità che abbassa l’asticella della sospensione dell’incredulità a livelli mai visti.
Il risultato è una corsa pirotecnica irrefrenabile in alta velocità e vacillante in folle, efficace a seconda del grado di caciara e difficile da godere in un formato diverso dall’alta definizione, uno show circense e funambolico messo in piedi al centro dell’inferno – da applausi i soldati in sospeso su aste flessibili – che magari ha finito per sacrificare quel volto genuino, tangibile e inquietante dell’Apocalisse che traspariva in special modo nei primi due capitoli dell’epopea (e che già nel terzo si vedeva sostituito da un’estetica più invasiva grazie ai maggiori fondi produttivi a disposizione) per puntare tutto su una dirompente grandiosità tanto superficiale quanto esaltante.
Fallita in parte l’ambizione di reimpostare i limiti e le possibilità dell’action moderno, non resta che vedere Mad Max: Fury Road come una squinternata baracconata fiera delle proprie peculiarità e dei propri difetti.
E sotto questo onorevolissimo aspetto rimarrà a lungo il campione della sua categoria.
Voto 6.5
La saga di George Miller perde Gibson ma acquista un tono da blockbuster vagamente femminista senza rinunciare alla sua anima artigianale.
Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
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