La sezione competitiva spara le sue ultime cartucce, ma a poche ore dalla premiazione viene lecito pensare che il Palmares sia banalmente bell’e che fatto: non scompaginerà più di tanto le carte lo spagnolo Los héroes del mal, centone adolescenziale dell’anarchia sentimentale di Jules e Jim e delle pulsioni di violenza di Arancia meccanica condensate nella morbosità esasperata del canone almodovariano (viene in mente in particolare La legge del desiderio), cui il produttore esecutivo Álex de la Iglesia garantisce un tono politicamente scorretto e programmaticamente alla ricerca del facile shock (una scena erotica a tre, pestaggi a base di pietre e mattoni, crapule di anfetamine e di speed).
C’è molta verosimiglianza nelle dinamiche spietate dell’universo giovanile – i protagonisti si trasformano in mostri in quanto emarginati dalla “gerarchia” scolastica – e il trio di ragazzi, specie l’ottimo Jorge Clemente, è ben assortito e affiatato, ma la svolta thriller del secondo atto spezza l’equilibrio con scivoloni melodrammatici forzosi e artefatti che risolvono la furia delle premesse con eccessiva facilità.
Un esordio ancora incerto e inevitabilmente derivativo, ma di certo interessante.
La triade casalinga del Concorso si completa invece con il grottesco Orleans, esagitato pastrocchio tragicomico che lega il destino di una svampita parrucchiera, di un medico abortista donnaiolo e di un poliziotto corrotto inseguiti da un fantomatico “agente del senso di colpa”. Ma la storia, che vorrebbe in qualche modo ritrarre un’umanità spaurita e spaesata sulla soglia dell’espiazione finale, è troppo intrisa di un simbolismo misticheggiante pedante e a tratti reazionario per coinvolgere davvero e per uscire dalla meccanicità, soprattutto grazie ai dialoghi sentenziosi dello sceneggiatore Yuri Arabov, disorientato e sregolato se fuori dall’orbita sokuroviana, e il taglio buffonesco e caricaturale dell’insieme, con tanto di bislacca mini-apocalisse risolutiva, oltre a farsi alla lunga stancante, rende il film francamente irricevibile.
Si esaurisce la lista degli ospiti berlinesi con il vietnamita Cha và con và, cronaca surreale e fascinosa della torpida routine quotidiana di un gruppo di ventenni un po’ vitelloni felliniani , un po’ ragazzi di Feng Kuei. Anche qui tanto la metropoli (Saigon) quanto la periferia (le sponde del Mekong) nascondono insidie e prevaricazioni, immobilizzano e sterilizzano, metaforicamente e letteralmente, le promesse di una gioventù locale in cerca di identità (in primis sessuale) e rendono vano ogni tentativo di fuga. Ma lo sguardo del quarantenne Phan ??ng Di sulla malaise generazionale dei suoi personaggi si apre su fascinose atmosfere di mistero ancestrale (l’amplesso nel fango, le lunghe passeggiate senza meta nelle paludi) che trasfigurano il racconto in un ibrido caleidoscopico di poesia arcana e di indagine sociale di grande suggestione.
Il passo è meditativo e sonnacchioso, sospeso fra i neon della città e il buio della giungla, stagnante e appiccicoso come il clima tropicale, trainato da una fortissima carica seducente.
Ed è sempre di seduzione che si può parlare descrivendo l’ultimo componimento per immagini di Terrence Malick, una nuova, immersiva esperienza multimediale che con i parametri del cinema narrativo ha rescisso tutti i legami più evidenti. Knight of Cups rappresenta il lato più “avventuroso” e picaresco di quella ricerca dell’assoluto inaugurata da The New World e arrivata alle forme astratte di oggi, nasconde dietro al lirismo delle sue libere associazioni a metà fra cosmicità e autobiografismo – Christian Bale interpreta sostanzialmente il medesimo ruolo dello Sean Penn di The Tree of Life, ossia Malick stesso – un solidissimo apparato da morality play, come il Pilgrim’s Progress di Bunyan abbondantemente citato in voce-off, un intreccio fatto di tappe e di incontri di valore prettamente allegorico che pescano nell’immaginario esoterico dei tarocchi, dalla Luna di Imogen Poots all’Eremita di Brian Dennehy, dalla Papessa di Teresa Palmer alla Morte di Natalie Portman.
Il film si traduce così nell’odissea emotiva e terrena dell’Uomo (anzi, di un everyman) che ha perso la via del ritorno alla casa del Padre, e in questo intento Malick si cala per la prima volta nei rituali e nella superficie del mondo circostante, dagli orgiastici, cafonissimi party hollywoodiani organizzati in ville fiabesche alle opulente, patinate scenografie dei servizi fotografici, confermando questa sua nuova meditazione free-form, paragonabile soltanto all’Adieu au langage godardiano, come il lato sensuale e profano del sublime di To the Wonder e aggiungendo un altro, preziosissimo e necessario tassello alla sua sempre più compendiaria commedia umana.
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