Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
A Gregori (Vincent Cassel) il mondo e le persone che lo popolano non piacciono affatto.
Per questo motivo, nel corso degli anni, ha costruito un ambiente protetto dove donne e bambini maltrattati dalla vita possano vivere al sicuro dai pericoli esterni.
Di questa comunità Gregori è, oltre che unico maschio adulto, leader carismatico, protettore e mèntore.
Ma non sarebbe corretto pensare a Gregori come a una sorta di filantropo. Tra le attività ordinarie e quotidiane che l’uomo insegna ai bambini ci sono sì il giardinaggio e il karaoke (vissuto in realtà come cerimonia di premiazione per chi si sia particolarmente distinto durante la settimana) ma anche l’omicidio su commissione.
In tal modo Gregori riesce a sostenere economicamente la struttura e, allo stesso tempo, a trasformare i suoi figliocci in piccoli e inconsapevoli sicari.
I problemi sorgono quando Alexander (Jeremy Chabriel), figlio adottivo prediletto di Gregori, inizia a metterne in discussione l’autorità e gli insegnamenti. Ben presto la tensione tra i due cresce fino a un’inevitabile resa dei conti che porterà a conseguenze inaspettate.
Ariel Kleiman debutta nel lungometraggio dopo una serie di pluripremiati corti (Deeper Than Yesterday, in particolare, nel 2011 ha vinto il Premio della Giuria al Sundance) con questo racconto di formazione claustrofobico e nero che trae spunto da un fatto di cronaca (la compravendita di bambini killer in Colombia) ma, di fatto, finisce col parlare soprattutto d’altro. In primis del potere che gli adulti hanno sui bambini e sulle pesanti responsabilità che questo comporta. In un’ottica più ampia, invece, si parla di come qualunque forma di dittatura trovi il suo terreno più fertile nel disagio sociale.
L’autore australiano immerge quindi lo spettatore nell’isolamento angusto di un cortile che, per la piccola tribù di diseredati che abita il film, rappresenta il mondo intero e vi pone a capo un despota dai toni minacciosamente paterni – qualcosa a metà strada tra il Kurtz di conradiana memoria e Fitzcarraldo – interpretato in maniera maiuscola da un Vincent Cassel che dosa bastone e carota con una gamma di mezzi toni che la natura ‘estrema’ dei suoi ruoli abituali spesso non gli consente di utilizzare.
Il monito alla base dell’opera è piuttosto chiaro ed è che ogni regime, per quanto possa anche apparire come un luogo confortevole e ospitale, lo è solo fin quando le sue regole vengono rispettate alla lettera e qualsiasi devianza suscettibile di intaccare l’autorità del despota rappresenta un problema simile a un male da estirpare.
Le intuizioni più felici di Kleiman (anche sceneggiatore del film, insieme alla fidanzata Sarah Cyngler) sono sostanzialmente due. La prima mostra l’assurdità di questo piccolo mondo attraverso un filtro stilistico di scarno realismo che, attraverso la rappresentazione reiterata dei riti quotidiani che ne scandiscono i ritmi, lo spoglia, per quanto è possibile, di ogni elemento che ne suggerisca o amplifichi la straordinarietà. Tutto ciò senza ricorrere mai a facili scene madri né tanto meno all’utilizzo di materiale scioccante un tanto al chilo.
La seconda, che poi è quella che porta Partisan ad essere qualcosa di più di un semplice apologo contro i fascismi, sta invece nella costruzione del personaggio di Gregori, descritto inizialmente non come un cattivo tout court, bensì come un contraddittorio mix di tenerezza virile e mania di controllo che, in virtù della sua calma apparente, una volta messo in discussione, deflagra incutendo ancora più timore.
Lo stile registico è, come si accennava poc’anzi, secco e per nulla incline al fronzolo, in piena ottemperanza ai dettami di quel Sundance di cui il film è quasi dichiaratamente figlio, ma paga indubitabilmente pegno anche alla scuola australiana del primo Peter Weir.
Lo statuto indie è garantito inoltre dalla Warp (casa discografica di area elettronica attiva ormai da anni anche in ambito cinematografico) che, oltre a produrre il film, porta in dote il notevole contributo musicale venato di ambient di Oneohtrix Point Never.
Un’inaspettata sorpresa di inizio stagione quindi e l’ennesima conferma che il 2015, cinematograficamente parlando, si avvia ad essere ricordato come l’anno dell’Australia.
Voto 7
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
L’opera prima del regista australiano Ariel Kleiman è un toccante dramma sociale con un gigantesco Vincent Cassel.
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