Room – La recensione dal Festival di Roma

Di Fabio Giusti
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Scheda
(Id., USA 2015)
Uscita: 3 marzo 2016
Regia: Lenny Abrahamson
Con: Brie Larson, Jacob Tremblay, William H. Macy, Joan Allen
Durata: 1 ora e 58 minuti
Distribuito da: Universal Pictures

Joy Newsome (Brie Larson) è stata rapita quando aveva solo diciassette anni da un uomo che l’ha segregata in un capanno per gli attrezzi e, nel corso degli anni, ripetutamente violentata.
Il frutto di quella violenza è il piccolo Jack (Jacob Tremblay), concepito e partorito in quella stessa stanza che per Joy è un incubo senza uscita, mentre per il bambino diventa ben presto tutto il suo mondo.
Jack non ha infatti alcuna idea di cosa ci sia fuori dalla stanza. Non sa cosa sia un albero, un cavallo né tanto meno come si interagisca con le altre persone. Per lui c’è solo il letto, il tavolo e un armadio nel quale Joy lo chiude una volta alla settimana, quando Old Nick – questo il nome del rapitore – viene a farle “visita”. Quando il bambino compie cinque anni la madre decide che forse è arrivato il momento che sappia la verità sulla loro situazione di prigionia.



Tratto dall’omonimo best seller di Emma Donoghue, Room è un film che, partendo da una violenza e dal racconto di un’indicibile privazione, parla in realtà un linguaggio assai tenero. All’interno di questo capanno/cella assistiamo infatti al difficile e delicato compito di una madre che inventa un piccolo mondo per difendere il figlio dall’orribile realtà in cui è costretto a vivere. L’opera si trasforma quindi ben presto in un moderno mito della caverna con protagonista un bambino durante la fase del suo imprinting primario.
Lenny Abrahamson, già autore lo scorso anno del notevole Frank, qui alza decisamente il tiro e sceglie di raccontare l’orrore inquadrandone i lati meno spiacevoli. Room è sostanzialmente diviso in due metà che corrispondono ognuna ad un film diverso. La prima parte, interamente ambientata nel capanno in cui Joy e Jack vengono segregati per anni, è senza alcun dubbio la migliore, in cui entriamo lentamente in contatto con un disagio che l’amore materno cerca di trasformare in un ambiente per quanto possibile confortevole. Con i dovuti distinguo, qualcosa di molto simile a quello che faceva Benigni ne La vita è bella.

Poi, quando nella seconda metà del film si abbandona la Stanza (nel film Jack la chiama “Stanza”, senza l’articolo, come a sottolineare il fatto che quel contesto per lui sia unico e non declinabile) e viene mostrato ciò che accade una volta riconquistata la libertà, la storia cambia radicalmente registro e si adagia, in parte, su toni più usuali, descrivendo le difficoltà che accompagnano il riadattamento ad una vita normale. Abrahamson ha una mano delicatissima e tratta la materia con la medesima grazia utilizzata in Frank per parlare del disagio mentale, senza mai indulgere nel pietismo né in alcun meccanismo ricattatorio, oltre a centrare un paio di guizzi di regia pregevolissimi, uno su tutti la fuga del bambino, di cui ci guarderemo bene dal dire oltre per non guastare il piacere della visione.
Il film si pregia inoltre di due interpretazioni magistrali, in primo luogo quella della lanciatissima Brie Larson che, anche a dispetto della sua giovane età, si dimostra perfettamente a suo agio in un ruolo così complesso. Il motivo per cui Room si farà amare è però tutto nella profondità degli occhi del piccolo Jacob Tremblay. Davvero un talento eccezionale il suo.

Voto: 7,5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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