Alaska

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Fausto (Elio Germano) e Nadine (Astrid Berges-Frisbey) si conoscono per caso, sul tetto del grande albergo parigino in cui lui lavora come cameriere e lei ha appena fatto un provino come modella. I due si piacciono subito, quasi come se l’uno riconoscesse nell’altra la stessa fragilità, ma un imprevisto che, nel giro di pochi istanti, si trasforma in dramma ne allontana le strade per un po’. Dopo qualche anno si ritrovano a Milano, si amano, soffrono e infine si perdono, per poi continuare ad incrociarsi nel tempo, mentre le loro vite prendono pieghe del tutto inaspettate.



Parte bene il ritorno di Claudio Cupellini al lungometraggio a cinque anni da Una vita tranquilla e dopo la felice esperienza televisiva di Gomorra – La serie. Il primo incontro di Fausto e Nadine è infatti tenero, ispirato forse dall’aria parigina che si respira in tutta la prima parte del film.
Poi purtroppo succede qualcosa e, man mano che la storia procede, vi si avverte evidente l’affanno di chi abbia voluto mettere troppa carne al fuoco senza né strutturare l’opera come un film dichiaratamente corale, né avere gli strumenti adatti a gestire materiale in tale quantità.
Il risultato è che Alaska non solo non decolla, ma gira in tondo, perennemente indeciso se intraprendere la strada del melodramma tout court o se trasformarsi invece in noir (la sensazione che, da un momento all’altro, possa consumarsi una tragedia del resto non abbandona mai lo spettatore) e rimane così in un limbo da cui non riesce ad uscire.
La colpa è tutta ascrivibile a una sceneggiatura che inanella in poco più di due ore (troppe) molti degli errori che un autore dovrebbe stare particolarmente attento a evitare. Quello di Alaska è infatti un problema legato a una scrittura che si rivela ben presto inadatta alle molte ambizioni del film.
E dire che ci si sono messi addirittura in tre – insieme a Cupellini ci sono Filippo Gravino, già autore della sceneggiatura di Perez e Guido Iuculano – per scrivere un film così pesantemente fiaccato da buchi e incongruenze.

Un’opera che, nel tentativo di descrivere gli ostacoli che spesso anche la più grande delle storie d’amore si trova a dover superare, si limita a calare dall’alto verso i due poveri protagonisti una serie di sfighe epiche, di cui una persona normale non riuscirebbe a essere vittima nemmeno in tre o quattro vite.
Il risultato è che, a fine visione, quasi si avrebbe voglia di contattarli, gli autori. Così, giusto per far loro qualche domanda di natura tecnica. Anche solo per capire in quale universo parallelo si possa supporre che una giovane e stupenda modella francese aspetti per ben due anni il ritorno di un cameriere italiano conosciuto e visto soltanto per mezzora.
Senza contare un personaggio interessante ma satellitare (quello interpretato, benissimo, da Valerio Binasco) che, per dieci minuti, diventa protagonista assoluto di un film incentrato sulla coppia Germano/ Berges-Frisbey e lo strano caso di Marco D’Amore che, forse in una pausa dal set della seconda stagione di Gomorra, si decide di far entrare e uscire dal film nell’arco di soli cinque minuti, giusto per dare alla storia un minimo di cotè criminale.
Peccato, perché la coppia di protagonisti funziona e ha una bella chimica e la regia è di gran lusso.
Cupellini bracca con la macchina da presa i suoi protagonisti riprendendoli spesso di spalle, come a volerne amplificare in termini visivi lo status di vittime.
Bastava solo stare più attenti a una sceneggiatura che, in più di un’occasione, sfocia in quella sensazione di ridicolo involontario che spinge lo spettatore a chiedersi, tra il divertito e il perplesso, “e adesso che altro deve capitare a questi due?”.

Voto 5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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