Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Nonostante un Oscar in saccoccia e una carriera quasi quarantennale dietro alla cinepresa, viene ancora difficile immaginare Ron Howard come qualcosa di più di uno Spielberg dei poveri. Fra gli innocui pruriti fantasy degli esordi (Splash, Cocoon, il disastroso Willow), le parabole sulle varie declinazioni del Sogno Americano (Cuori ribelli, Cinderella Man, ma anche la satira di EdTV) e i fenomeni da box office dai fini prettamente imprenditoriali (gli asfittici adattamenti dell’opera di Dan Brown), l’attività dell’ex-divo televisivo di Happy Days e della sua Imagine Entertainment continua a incarnare l’emblema di un establishment inseguito, raggiunto e mantenuto a fatica, spesso al prezzo di qualche défaillance al botteghino (il tracollo di The Missing, l’immeritato insuccesso di Frost/Nixon) e di brutti colpi alla reputazione (lo spudorato sellout de Il Grinch e l’inspiegabile virata comica de Il dilemma, oltre alle già menzionate indagini esoteriche di Robert Langdon).
Si finisce in questo modo per dimenticarsi del lato più genuino e meno pretenzioso di una galleria così variegata e incongrua, ossia quello capace di applicare all’impianto dell’epica e della tradizione hollywoodiane un focus caratterizzante sull’azione e sulle sue dinamiche, senza spingersi – per ovvie cause e lacune – alle vette della poesia zemeckisiana, ma traducendosi in risultati impeccabili come l’ancora oggi imponente Fuoco assassino e, soprattutto, il recentissimo Rush, probabilmente l’apice della sua produzione.
È in questo filone, fortunatamente, che va a inserirsi Heart of the Sea, nuova peripezia action a rotta di collo che, insieme ai due progetti di cui sopra e all’avventura spaziale di Apollo 13, arriva a comporre un’ideale tetralogia elementale sui limiti del coraggio e sull’ansia della perdita. Dopo pompieri “cavallereschi”, cosmonauti alla deriva e temerari delle quattro ruote, completa il quadro l’equipaggio della baleniera Essex, fonte di ispirazione – come inopportunamente svelato dal sottotitolo italiano – del capolavoro letterario di Herman Melville e ulteriore teatro di quel discorso sul dualismo e sull’antitesi che Howard pare aver assimilato dalle sue precedenti collaborazioni con lo sceneggiatore Peter Morgan.
Come nel caso della rivalità Lauda-Hunt (e pure, in un certo senso, del confronto fra l’ex-presidente USA e il giornalista britannico), a rappresentare il fulcro drammatico della storia è prima di tutto uno scontro di natura sociale e archetipica, qui personificato dalla freddezza aristocratica del capitano Pollard (Benjamin Walker) e dall’impeto proletario del primo ufficiale Chase (Chris Hemsworth, in un ruolo pressoché speculare a quello di Rush e ancora una volta valorizzato in una performance tutta muscolare), due prospettive uguali e contrarie sulla sfida Uomo-Natura analogamente impotenti e fragili di fronte all’ignoto
Li circonda un inventario marinaresco mutuato fedelmente, oltre al riferimento diretto, da molta memoria ottocentesca, dal paesaggismo romantico di Turner (la scena della burrasca) e di Danby (l’affondamento, forse il picco immaginifico del film) all’umanità dei libri di Kipling (Capitani coraggiosi, nella fattispecie), con il giovanissimo mozzo Nickerson (Tom Holland, futuro Spider-man) a fungere da ago della bilancia e da perno narrativo delle vicende, e nella scelta di impostare come cornice del tutto il colloquio fra il ragazzo ormai fattosi anziano (Brendan Gleeson) e lo stesso Melville (Ben Whishaw) in cerca di un nuovo soggetto per la stesura del suo romanzo si intravede quell’apologo – già reso con troppa leggerezza nel per alcuni versi affine Mr. Holmes – sull’etica della dissimulazione e sulle responsabilità di chi racconta (si pensi anche al problema giuridico del prefinale), che costituisce la ragion d’essere di Heart of the Sea, non la banale origin story di Moby Dick, bensì una riflessione sullo storytelling di gran lunga più lucida e meno consolatoria di molti suoi contemporanei (torna alla mente in particolare, specie per il secondo atto, la fiaba new age Vita di Pi).
Heart of the Sea è quindi un’operazione che conferma l’abilità, purtroppo sottoutilizzata, di Howard di misurarsi con la grammatica del Mito, cinema virile – come quello di Walsh e di Curtiz, di cui Hemsworth sarebbe potuto essere efficacissimo interprete – orgogliosamente vecchio stampo che non si lascia vampirizzare dalle moderne tecnologie ma che ne fa uso, seguendo l’esempio virtuoso degli infiniti, impossibili punti macchina di Rush, per realizzare un’odissea dello sguardo (cui gioverebbe la visione non tanto in 3D, quanto in IMAX) di grande coinvolgimento e di immediata classicità.
Voto 7
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