La corrispondenza

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Amy (Olga Kurylenko) è una studentessa fuoricorso che intrattiene, ormai da anni, una relazione clandestina con un uomo più maturo, il professore di astrofisica Ed Phoerum (Jeremy Irons), sposato e con figli.
I rispettivi impegni (lei lavora anche come stuntwoman nel cinema) li portano a vedersi molto meno di quanto vorrebbero, ma i due alimentano il loro rapporto a distanza con una miriade di mail, videochiamate, missive e chat con cui cercano di sublimare i lunghi distacchi.
Quando un giorno Ed sembra svanire nel nulla, Amy non può fare altro che aggrapparsi con tutta se stessa a quei messaggi che, inspiegabilmente, continuano ad arrivarle con cadenza quotidiana.
Quegli stessi messaggi che ben presto acquistano il valore di vere e proprie tracce che la ragazza sarà costretta a seguire per scoprire che fine abbia fatto il suo amato professore.



La_Corrispondenza_2

Negli anni successivi all’Oscar Giuseppe Tornatore si è guadagnato, oltre a un più che nutrito stuolo di fedelissimi, anche lo scetticismo di una frangia di detrattori per lo più insensibili all’esterofila grandeur e alla retorica un po’ semplicistica (per non dire piaciona) da lui puntualmente ostentata.
Se c’è però una cosa che mai nessuno ha potuto mettere in discussione del suo cinema è l’indubbio respiro cinematografico che – da Nuovo Cinema Paradiso a La migliore offerta, passando anche per alcuni passi falsi come Malena o La sconosciuta – ha sempre abitato ogni suo film.
Si può sostenere anzi che, fino all’arrivo di Paolo Sorrentino, Tornatore sia stato l’unico in grado di osare con la macchina da presa movimenti e geometrie che provassero a spingersi oltre la pigra fissità di certi primissimi piani e la regola basica del “campo e controcampo”, annose tare che da sempre minano le fondamenta del cinema italiano.
Una ricchezza di linguaggio la sua di cui, ne La corrispondenza, pare non esservi più alcuna traccia, fatta eccezione per la lunga e raffinatissima sequenza che accompagna i titoli di testa, un’ansiogena inquadratura fissa del corridoio di un albergo che sa molto di Hitchcock.
Da lì in poi il film scivola in un’irritante sciatteria di mise-en-scène che ricorda, e non poco, lo stile di certi film TV tedeschi che ci si ritrova a guardare, senza neanche capire bene perché, in certi giorni di festa sui canali in chiaro.
La mancanza di una cornice tecnica di rilievo trova una perfetta corrispondenza – mi si perdoni il gioco di parole con il titolo del film – in una sceneggiatura dalla banalità sconcertante che vorrebbe parlare d’amore e finisce col farlo nel peggiore dei modi, attingendo a piene mani dai più triti luoghi comuni sull’argomento e producendo dialoghi che in più di un’occasione sfiorano il ridicolo involontario.
La Kurylenko che, immediatamente prima di congedarsi da Jeremy Irons, gli sussurra sognante “non mi hai mai lasciato una tua canottiera” può bastare a rendere l’idea?

Siamo, per intenderci, da qualche parte a metà strada tra un bigliettino dei Baci Perugina e un Harmony di quart’ordine. Persino un tema come quello delle dinamiche di relazione ai tempi del web – per alcuni versi già obsoleto, ma suscettibile comunque di interesse sociologico –  viene qui svilito dalla manifesta incapacità dell’autore di intuirne gli elementi di maggiore complessità.
Di fronte a cotanta evanescenza tutto il resto non può che crollare per osmosi ed è il disastro.
Crollano in primis le interpretazioni dei due attori chiamati a reggere, da soli, il peso del film, con un Jeremy Irons mortificato e costretto a recitare le battute peggiori della sua carriera ripreso sempre e soltanto da una webcam e Olga Kurylenko, oggettivamente inadatta a ricoprire un ruolo così centrale.
Crolla anche la colonna sonora, opera del neo Golden Globe Ennio Morricone, tonitruante e fastidiosamente invasiva come qualsiasi cosa il Maestro abbia mai composto per Tornatore.
Per non parlare poi dei (nemmeno tanto) velati accenni agli universi paralleli e alla reincarnazione, nulla di più che finti segnali di un processo di stratificazione semantica che, alla fine, è lo stesso script a negare.
Noia a parte, la sensazione è quella di un film che, pur parlando di nuove tecnologie, risulta incredibilmente vecchio, sia nell’impianto narrativo che nella sua componente stilistica.
Un’involuzione gravissima per un regista tuttora considerato un blasone del cinema italiano all’estero e il cui unico, vero capolavoro rimane quell’Una pura formalità all’epoca bollato frettolosamente come un errore di percorso un po’ da tutti.
Forse anche dallo stesso Tornatore.

Voto 2

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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