The Pills – Sempre meglio che lavorare

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Peppe, ma dove vai…dove vai? Peppe, ma ti fanno lavorare, sai!
(I soliti ignoti)

 

Luigi, Matteo e Luca si conoscono fin dall’infanzia.
Da quando cioè, poco più che bambini, si fecero la solenne promessa di non lavorare mai. Promessa mantenuta, perché a trent’anni sono ancora lì, vittime di un immobilismo ideologico che li costringe a passare giorni interi attorno al tavolo di una cucina, a farsi canne, bere caffè e impelagarsi in discussioni interminabili che ruotano più o meno tutte intorno al nulla.
Basta però che Luca incontri una ragazza che trova inspiegabilmente eccitante il fatto che si lavori perché tutte le sue inossidabili certezze entrino in crisi.
I due iniziano con dei lavoretti part-time – meglio ancora se notturni – di nascosto dagli amici, ma, ben presto, quello che all’inizio era poco più di un gioco causa loro assuefazione e il bisogno di spingersi oltre, addirittura fino alla ricerca di un posto fisso.
A quel punto Luigi e Matteo si sentono in dovere di intervenire per provare a riportare l’amico sulla retta via.
Perché, parole loro, “una vita con la sveglia alle sette e trenta non vale la pena di essere vissuta”.

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Nata cinque anni fa come web serie, The Pills ha raggiunto in poco tempo una popolarità (parliamo  di migliaia di visualizzazioni su YouTube) andata oltre le più rosee aspettative dei suoi stessi autori.
Tanto da solleticare la curiosità di un produttore scaltro come Pietro Valsecchi – basti ricordare che dietro il trionfo in sala di Checco Zalone c’è lui – che, dopo il passaggio su Italia 1 della seconda stagione della serie e un prescindibile show passato piuttosto in sordina (Non ce la faremo mai), deve aver intuito che il terreno ideale del giovane trio non era la TV bensì il cinema, dandogli carta bianca per il debutto sul grande schermo.
E la scommessa, lo diciamo subito, è vinta.
In primis perché i tre hanno l’acume di non snaturare in alcun modo il proprio stile e non cadono nella facile tentazione di edulcorare un linguaggio che, invece, resta volutamente sporco e autoreferenziale.
Se, da un lato, questa scelta difficilmente amplierà in maniera significativa il loro pubblico, ha però senz’altro il merito di non scontentare i fan della prima ora.
Ma lungi dal proporre una versione semplicemente più lunga di una puntata di The Pills, Luca Vecchi – è lui il deus ex machina del trio – si rivela intelligente nell’adattare il linguaggio del web a quello cinematografico piuttosto che tentare l’insidiosissimo percorso inverso.
Il risultato è una riuscita commedia generazionale (mentre scrivo sto già facendo ammenda per aver usato il termine “generazionale”) che diverte e, soprattutto, si diverte.

Tutto il film è infatti una corsa senza soste piena zeppa di battute, riflessioni leggere senza essere banali e arditi richiami cinefili (si va da Il cacciatore a L’attimo fuggente passando per La dolce vita, quest’ultimo con un esilarante omaggio alla celeberrima scena della fontana di Trevi) sfruttati non col piglio snob di chi vuol semplicemente far vedere che ne sa, ma con lo stesso fine narrativo di un Judd Apatow o di un Kevin Smith. Non è affatto un caso che si citi l’autore di Clerks, film a cui i The Pills sembrano guardare molto, soprattutto nell’elegia dello svacco e del fancazzismo post-adolescenziale che fa da sfondo a tutta la storia e nell’uso diegetico del passaggio continuo tra bianco e nero e colore.
L’aspetto tecnico è un altro dei pregi della pellicola. C’è un’estrema disinvoltura nel modo in cui Luca Vecchi approccia la regia cinematografica che si manifesta in una discreta attenzione per la costruzione delle inquadrature e in movimenti di macchina nient’affatto elementari.
Ma, al netto delle dissertazioni critiche, questo è un film che trova la sua piena ragion d’essere nel suo far ridere. E molto anche. L’ottima resa dei The Pills al cinema fa quindi piacere per due motivi.
Il primo è che i tre rappresentano il primo fenomeno web capace di adattarsi al cinema senza far emergere la propria inconsistenza (come nel caso del recente Game Therapy, orripilante e inutile film pieno di YouTubers) né essere fagocitato dai meccanismi che invece si vorrebbero idealmente sovvertire, come nel caso di Frank Matano.
Il secondo motivo è che questo film, insieme a Pecore in erba di Alberto Caviglia e all’imminente Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, va a comporre un ideale trittico da cui sarebbe logico partire per una rinascita della nostra commedia che si decida una buona volta a uscire dal circolo vizioso del politically correct a pioggia e dell’uso incondizionato di Raoul Bova e Luca Argentero.

Voto 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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