Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Johnny Utah (Luke Bracey) è un amante del brivido e degli sport estremi che, dopo aver visto morire un amico durante un acrobatico salto in moto, decide di cambiar vita ed entrare nell’FBI. La sua prima missione è quella di infiltrarsi in una banda di atleti capeggiati dal carismatico Bodhi (Edgar Ramirez) sospettati di una serie di rocambolesche rapine. Tra Johnny e Bodhi si viene a creare ben presto un rapporto ben più complesso di quello che vede contrapposti legge e crimine.
Un rapporto fatto sì di competizione ma anche di profondo rispetto, che mette a serio repentaglio sia la vita di Johnny che la riuscita dell’intera operazione.
L’infinita inutilità di certi remake è qualcosa di cui si potrebbe continuare a ragionare più o meno all’infinito.
Eppure, a livello teorico, l’abisso semantico che separa, ad esempio, questo esile filmetto tutto testosterone e scene d’azione simili a video dimostrativi dell’ultimo modello di GoPro e il capolavoro di Kathryn Bigelow può tornarci utile per far emergere alcune tra le peggiori derive del cinema hollywoodiano di oggi.
Nel 1991, anno di uscita del Point Break originale, era infatti in corso un consapevolissimo processo di ridefinizione dei generi che passava attraverso l’abbattimento definitivo di qualsiasi confine ancora esistente (soprattutto per il pubblico) tra cinema d’autore e mainstream, così come, in un contesto più ampio, tra cultura alta e bassa in generale.
In tal senso la Bigelow andava ad inserirsi alla perfezione nel solco tracciato durante il decennio precedente da James Cameron. E forse il fatto che, all’epoca, i due fossero marito e moglie non era proprio un caso. Stiamo parlando di una sintesi perfetta tra spettacolarità delle immagini e l’avanzare di un discorso di riscrittura integrale di narrative un tempo considerate popolari (il noir e il poliziesco) ben lontana dalle solo di poco successive cinefile rivoluzioni tarantiniane. Sia nel cinema di Cameron che in quello della Kathryn Bigelow, infatti, lo scopo primario era sempre e comunque quello di costruire dei blockbuster, solo dotati di anima.
Di tutto ciò nulla rimane nella sterile ostentazione di muscoli e salti mortali che è il Point Break di Ericson Core, noto ai più come direttore della fotografia di Fast and Furious. La quadratura del cerchio è rappresentata poi dal fatto che, a occuparsi dello script, sia tal Kurt Wimmer, già al lavoro su un altro remake di rare inutilità e pochezza, ossia il subito dimenticato Total Recall del 2012.
Ora, per quanto sia comprensibile che in un periodo di vuoto pneumatico di idee si vada ad attingere da quegli anni novanta che sono stati forse l’ultima sacca di creatività del cinema di consumo americano, si fatica però a capire come i ripetuti flop commerciali di questi remake non facciano scattare dei seri campanelli d’allarme ai piani alti degli Studios.
Perché proprio non si spiega come si possano buttare al vento svariate decine di milioni di dollari in una produzione che si limita a bearsi delle sue location naturali mozzafiato (il film è girato tra Germania, Austria, Svizzera, Francia, Messico, Venezuela, Polinesia Francese, India, Italia e, ovviamente, Usa) piuttosto che preoccuparsi di raccontare qualcosa che somigli a una storia o anche solo di avere una star di sicuro richiamo nel cast. In verità non ci si preoccupa nemmeno di dare un minimo di credibilità a un plot poliziesco di cui, più o meno a metà film, si perde ogni traccia.
Point Break si limita così a inanellare scene, una più spettacolare dell’altra, di surf su onde giganti, wingsuit flying, snowboard, free climbing e motociclismo acrobatico. Il tutto punteggiato da dialoghi che vorrebbero essere filosofici ma che sfociano quasi sempre nel puro nonsense. Anzi, per rendere meglio l’idea, i dialoghi in Point Break hanno la stessa funzione accessoria che potrebbero avere in un qualsiasi film porno, semplici intermezzi tra una scena di sesso e l’altra.
Magari cambia il pubblico di riferimento, ma resta l’idea di una fruizione cinematografica intesa come forma di puro voyeurismo fine a se stesso.
Voto 3
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