Ave, Cesare!

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“Vorrei fosse così semplice” (Laurence Laurentz)



Più che una semplice esplorazione dei confini della stupidità, il cinema di Joel e Ethan Coen è stato da sempre un ritratto ora benevolo (Il grande Lebowski), ora crudele (L’uomo che non c’era), ora miserabile (A proposito di Davis) dell’umana inadeguatezza e dell’incapacità di pervenire al confronto con se stessi e col prossimo, una dimensione narrativa dove non a caso ricorrono il delitto (rapimenti, omicidi, ricatti) e la sua risoluzione peggiore (consegne a vuoto, carnefici insensate, equivoci a raffica), regolata – come se non bastasse – da un imperscrutabile clima di fatalismo giudeo-cristiano.

Ave, Cesare! si apre eloquentemente con l’inquadratura di un imponente crocifisso, proprio come i titoli di testa di The Hateful Eight, e allo stesso modo del kammerspiel tarantiniano è in buona sostanza la cronaca impietosa e onnicomprensiva di una redenzione negata.
Ma se a dominare sui panorami innevati del Wyoming è lo sguardo dolente e desolante di un Dio dimenticato, nella edulcorata quotidianità degli studios della Mecca cinematografica l’intervento celeste è avvolto, come già fu soprattutto nel Minnesota suburbano del loro capolavoro A Serious Man, nell’indeterminatezza e nell’impossibilità di rendersi tangibile e comprensibile agli occhi dell’Uomo, ridotta al fuori campo (“sei parte del cast principale o delle comparse?”, chiede un assistente di scena al figurante che interpreta Gesù sul Golgota) o all’inesprimibilità (la didascalia “DIVINE PRESENCE TO BE SHOT” che appare durante la proiezione dei giornalieri).

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Quella su cui si articola l’intreccio di Ave, Cesare! è un’unica giornata in cui accade di tutto e non si conclude nulla – in maniera non tanto diversa dalla settimana di Burn after Reading, in fin dei conti -, un aggrovigliamento di inettitudini assortite chiamate a fissare il loro ruolo, anche loro malgrado, nei compartimenti stagni dell’industria, dalla pseudo-Esther Williams futura ragazza madre (Scarlett Johansson) alla promessa del western trascinata a forza nella realizzazione di un dramma in costume (Alden Ehrenreich), fino alla stella di prima grandezza sequestrata e mentalmente plagiata da una congrega di sceneggiatori vittime della Commissione per le attività antiamericane (George Clooney), tutti sistematicamente tenuti a bada dalle manovre dello scafato faccendiere Eddie Mannix (Josh Brolin).

Tornano in mente la farsesca Germania Est di Uno, due, tre! e i frenetici aggiustamenti del MacNamara di James Cagney, con la significativa differenza di un fondo amarissimo che incombe sulla buffoneria (la “riprogrammazione” della star a suon di schiaffoni, le inquietanti incursioni di Tilda Swinton nelle vesti di una sorta di Hedda Hopper in versione squadrista, il tugurio della montatrice-talpa di Frances McDormand) e che riassume l’atmosfera di oppressione e di coercizione del maccartismo con molta più efficacia e potenza delle coeve, banali querimonie di Trumbo.

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Mai i Coen avevano così puntato la loro attenzione sul concetto di controllo e di messinscena in senso stretto, e l’ampio spazio dedicato alle coreografie, in cui primeggia uno smagliante, spassoso Channing Tatum in uniforme marinaresca, e alle pose sceniche in attesa del ciak ne è l’ulteriore prova: l’esito è in un certo qual modo la loro opera politica per eccellenza, una feroce satira sul mantenimento dell’ordine dalla quale, per la prima volta in tutta la loro filmografia, sono totalmente assenti la morte e la sua portata catartica, se si esclude quella allegorica del Cristo.

Di nuovo come in Burn after Reading, l’ultima loro sortita nell’ambito della commedia pura, alberga l’impressione che la caratterizzazione dei personaggi prenda il sopravvento sulle dinamiche di sceneggiatura e sugli sviluppi drammaturgici, col risultato di di dare maggiore risalto agli elementi di contorno, specie l’affettato clone di George Cukor personificato da un finissimo Ralph Fiennes e, ancor più, dal cowboy imbronciato di Alden Ehrenreich (la vera rivelazione della comitiva, dopo i notevoli esordi coppoliani), imitazione irresistibile dei divetti à la Ricky Nelson; a restare più sullo sfondo sono paradossalmente gli attori di primo piano, ossia Clooney e Brolin, forse anche per via del drastico lavoro di riscrittura che ha portato il progetto originario del 2004 – nelle intenzioni, l’atto finale di una “trilogia dell’idiota” iniziata da Fratello, dove sei? e proseguita con Prima ti sposo, poi ti rovino – alla forma compiuta di oggi, che ha visto invertita la gerarchia dei due protagonisti.

Ciò nonostante, Ave, Cesare! è ben lungi dal definirsi una tappa interlocutoria del percorso degli autori di Fargo, ed è anzi una delle loro più lucide e affilate disamine dell’America del passato e del presente – valga per tutte l’assurdo comitato ecclesiastico chiamato da Mannix ad approvare lo script del film in produzione, una guerra di religione in miniatura -, un preciso colpo al cuore dell’establishment e all’ipocrisia della Golden Age camuffato da sgargiante operazione nostalgia, un’esilarante barzelletta da seguire fino in fondo per scoprire con stupore che alla fine non c’era proprio niente da ridere.

Voto 7.5

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