Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Ormai le guerre moderne non si combattono più sui campi di battaglia – o, almeno, non solo – ma in comodi abitacoli all’interno dei quali è possibile pilotare in remoto aerei di ultima generazione, i cosiddetti droni. E’ in uno di questi cubicoli provvisti di aria condizionata, a solo pochi chilometri da Las Vegas, che Tommy Egan (Ethan Hawke) sferra quotidiani attacchi aerei ai talebani in Iraq e Afghanistan.
Dopo sei missioni sul campo, infatti, l’Aeronautica militare lo ha destinato a questa gabbia dorata fatta di bombardamenti al mattino e barbecue nel giardino della sua casa in periferia alla sera. Ma a Tommy manca l’adrenalina della sua vecchia vita e farebbe di tutto per tornare a volare su un vero aeroplano. La situazione cambia quando la CIA inizia a ordinare attacchi verso obiettivi sempre più aleatori, in nome di un generico “potrebbe essere un terrorista” che se, da un lato, illude l’americano medio di poter dormire sonno tranquilli, dall’altro corre il rischio costante di colpire anche vittime innocenti.
La sesta pellicola da regista di Andrew Niccol – presentato al Festival del Cinema di Venezia ormai due anni fa e in uscita solo ora nelle sale italiane – sulla carta ha più o meno tutto quello che servirebbe a farne un buon film di guerra, forse anche ottimo. Perché approccia il genere da un punto di vista tutto sommato nuovo, seppure stilisticamente debitore dell’ultima Kathryn Bigelow, ed è forte di un incipit potentissimo, con quel violento passaggio tra il primissimo piano di Ethan Hawke intento a bombardare un edificio in cui si nasconde una cellula terroristica e gli spazi sconfinati del deserto che circonda Las Vegas.
E’ attorno a questa dicotomia tra dentro e fuori più che sul classico “noi VS gli altri” che si sviluppa il centro nevralgico dell’opera e, al tempo stesso, prende forma il malessere del protagonista, assalito dai sempre maggiori sensi di colpa legati al suo uccidere persone reali su uno schermo inquietantemente simile a quello di una Playstation. Niccol insiste molto sull’assurdità di un compito così gravoso inserito però a forza dentro coordinate spazio-tempo tipicamente impiegatizie, e lo fa anche attraverso l’uso reiterato di immagini che mostrano i ritorni a casa in macchina di un Egan sempre più spaesato per lo scarto così repentino tra una guerra pigramente combattuta in ufficio e l’apparente pace domestica del dopolavoro.
E sbaglia chi ha cercato in tutti i modi di intravedere nella nostalgia del protagonista per gli F-16 e per la guerra in loco una facile apologia del superomismo patriottico (e anche leggermente destrorso) a stelle e strisce.
Le domande che infatti l’autore di The Truman Show sembra porsi non hanno molto a che fare con la guerra in sé e con quanto questa possa essere giusta o sbagliata, quanto con il rischio di una possibile anestetizzazione emotiva di fronte a un conflitto combattuto per lo più davanti a un monitor e alla possibilità che attacchi sempre meno mirati a obiettivi X, solo ipoteticamente legati al terrorismo di matrice islamica, possano in realtà diluire all’infinito i tempi di una guerra contro un nemico che forse, di riflesso, sono quegli stessi attacchi a creare.
Il problema quindi non risiede tanto nella supposta ambiguità morale di Good Kill, bensì nell’eccessiva schematicità con cui porta avanti le sue istanze di base; schematicità a cui non fa da contraltare un’adeguata progressione narrativa che lo allontani dall’essere un puro e semplice pamphlet. In parole povere qui succede troppo poco e quel poco non prende mai alla sprovvista. Per quanto sia interessante notare come Andrew Niccol trasli la riflessione sui confini spesso labili tra realtà e finzione dal paesino fittizio in cui Truman Burbank era costretto a vivere una vita di giornate sempre perfettamente identiche agli enormi spazi in cui il maggiore Egan consuma la graduale perdita di se stesso e della propria umanità, in Good Kill risulta tutto troppo chiaro sin dalle prime immagini, superate a sinistra dalla complessità testuale di una qualsiasi puntata di Homeland.
Spiace perché l’idea di fondo è notevole, oltre che nobile e se l’autore si fosse premurato di costruirvi più cose attorno, adesso staremmo senz’altro spendendo ben altre parole. Invece, a parte la solida interpretazione di un Ethan Hawke sempre più maturo, rimane l’amaro in bocca per l’occasione sprecata e la forte sensazione che anche Andrew Niccol, come il protagonista del suo film, negli anni si sia un po’ perso per strada.
Voto 5
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