Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Il Cile è un Paese che giace sotto il peso delle proprie ferite, segnato nel corpo e nello spirito, martoriato nella sua assurda, barcollante conformazione idrogeologica e nella concatenazione di violenza che ne compone la storia, recente o remota che sia.
Il suo è pertanto un cinema dolente e irriducibile, memore delle sue massacranti battaglie come nei ritratti malinconici di Andrés Wood (Machuca e Violeta Parra went to heaven), attento alla misera quotidianità dei suoi superstiti – El año del tigre e Gloria di Sebastián Lelio – e capace di riconoscere nella tragedia del proprio vissuto il segno di una condizione cosmica e universale, sintetizzata magistralmente nelle elegie del documentarista Patricio Guzmán (Nostalgia de la luz e soprattutto El botón de nácar, a detta di chi scrive il film fondamentale dello scorso anno, di prossima uscita italiana col titolo La memoria dell’acqua).
Impossibile considerare la produzione locale senza citare Pablo Larraín, il suo esponente di punta e il principale artefice di quel lancio internazionale che ha reindirizzato l’attenzione dei distributori sulla scena sudamericana in blocco, che con la sua ultima fatica sale di appena un gradino sopra l’abisso malebolgesco della sua trilogia sugli anni della dittatura di Augusto Pinochet inaugurata dall’incubo grottesco di Tony Manero, proseguita con l’apocalisse storica di Post mortem e chiusa dalle note di speranza di NO – I giorni dell’arcobaleno. Se a spuntare dietro il campionario antropologico delle pellicole precedenti era l’Inferno della società cilena di ieri, a circondare i protagonisti de Il club, un quartetto di ecclesiastici macchiatisi di crudeli efferatezze assortite e confinati impunemente in una pacifica cittadina balneare, è piuttosto il Purgatorio di oggi, anzi, il poco che ne resta, un luogo di espiazione circoscritto esclusivamente alla spiaggia che nella Commedia dantesca fa soltanto da anticamera.
Per catturare l’indeterminatezza dell’insieme, Larraín attua una scelta stilistica molto precisa, trasfigurando gli ambienti in un’atmosfera lattiginosa e accecante che sfoca i contorni, azzera il contrasto ed esaspera il controluce, facendo muovere i propri personaggi fra interni indistintamente vaporosi (le lentissime inquadrature a stringere verso la sala da pranzo) ed esterni opprimenti che li riducono perlopiù a pura ombra. E’ l’idea che, unita all’ormai caratteristica sensazione di distacco che denota lo sguardo clinico del cineasta quarantenne, allontana l’operazione dalla zona di comfort del filone civile più lapalissiano – quella del pur pregevole Il caso Spotlight, con cui lo si è voluto forzosamente paragonare – e l’avvicina al territorio decisamente più impervio di quell’affresco mistico-esistenziale che da Luci d’inverno di Bergman, passa per Tarkovskij (citandone pure l’estetica, con l’uso delle sue stesse lenti anamorfiche al cromo, abbinate qui a una resa ben poco ortodossa, se non proprio programmaticamente deturpante, del digitale) e arriva a Calvario di McDonagh.
Tanto basta a Larraín per calare lo spettatore in un malessere generalizzato popolato da spettri e mostri che della loro umanità hanno conservato solamente l’involucro e gli istinti dominati a stento (come i cani che infestano la cittadina, levati dalla strada e coinvolti in giri di corse clandestine), volti coperti da un alone di circostanza che ha fatto dimenticare il contatto con la realtà e il senso dell’orrore – la spaventosa imperturbabilità della “perpetua” (Antonia Zegers, moglie del regista), che in teoria dovrebbe garantire il controllo, ma che nei fatti è complice e sottomessa –, tutti, compreso il “bel gesuita” (Marcelo Alonso) mandato a indagare dal Vaticano, passati sotto la lente del sarcasmo, ma mai sottoposti a un qualsivoglia moralistico giudizio.
Pur non perdendo di vista la sua missione di denuncia, come testimonia la caratterizzazione di Padre Silva (Jaime Vadell), ex-cappellano militare custode di confessioni indicibili, Il club guarda, dunque, altrove, ai meccanismi perversi dell’esercizio dell’autorità (socio-governativa prima, divino-temporale ora) che travolge tanto le vittime – il reietto Sandokan (Roberto Farias), una specie di stolto in Cristo che è pure la personificazione delle (s)torture cui è stato sottoposto il Cile – quanto i carnefici, portatori sani della malattia che, più che loro stessi, infetta il sistema, a cominciare da Padre Garcia (il fedelissimo Alfredo Castro), pedofilo “re della repressione” sinceramente convintosi, come e più dei suoi confratelli, di una posticcia buona fede alla base delle sue azioni, in verità inculcatagli dall’istituzione che gli fa capo.
Ed è così che, anche distante dal contesto pubblico, il cinema di Larraín persegue il suo scopo profondamente politico e non, più banalmente, ideologico, identificando ancora una volta nell’assenza di coscienza la linea di frontiera fra civiltà e barbarie, che infatti era il motore degli omicidi di Tony Manero e dell’asservimento omertoso di Post Mortem, e giungendo alla catarsi alla fine di un percorso che porta allo sviluppo del concetto di colpa, come già nelle strategie di marketing nascoste nella campagna elettorale di NO.
Resterà deluso chi si aspettava da Il club una dimostrazione ammiccante di cieco anticlericalismo o un’ora e mezza di palestra per il proprio sdegno (per quelli, per dirne uno, è sufficiente rivolgersi all’ultimo Ken Loach), trovandosi di fronte invece un’opera cupa e compassionevole, problematica e intransigente, una terribile commedia sulla fallibilità dell’Uomo senza alcuna consolazione, né facile riscatto.
Voto 8
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