Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Se il modello della commedia francese da esportazione del post-Quasi amici dà l’idea di essersi assestato su uno sciatto canone iperbuonista di fattura marcatamente para-televisiva (l’ignobile La famiglia Bélier, il frivolo Non sposate le mie figlie!, il pietistico Samba) o di pigrissima derivazione teatrale (gli scipiti e insignificanti Cena tra amici e Tutti pazzi in casa mia), nella trasposizione per il grande schermo dei ricordi autobiografici del romanziere Samuel Benchetrit sembrano fare timidamente capolino quell’integrità artistica e quella purezza di sguardo che il genere aveva sacrificato in nome di una sempre più malcelata ruffianeria di fondo.
Per raccontare le tre microstorie che popolano Il condominio dei cuori infranti – adattamento italiano coscienzioso, ma fuorviante delle Cronache dell’asfalto della sorgente letteraria –, lo stesso Benchetrit pare voler mettere in pratica la lezione sulla condizione esistenziale imparata dal vignettismo surreale di Roy Andersson, riproponendone pure il cromatismo smorto e, soltanto in parte, la raggelata fissità, ma preferendo al rigore formalista un’impostazione più convenzionale e votata all’empatia, straniante quel tanto che basta per incuriosire senza turbare gli animi e attenta a mantenere l’intimità e la vicinanza con i suoi personaggi non indietreggiando essenzialmente mai oltre il piano medio frontale.
Ciò che ne consegue è quindi una declinazione vagamente appena più ricercata ed eccentrica di quella formula comica da cui solo di rado, e perlopiù flirtando con il dramma – come nel caso del notevole La corte – il cinema transalpino riesce ad affrancarsi, un approccio che confonde la grazia con l’inconsistenza e la dolcezza con la faciloneria, calandosi in un clima di sospensione che guarda alla stasi di Kaurismaki e all’imperturbabilità di Jarmusch ma che, scalfita la patina del non-detto, rivela un impianto esile e inoffensivo. Se l’incontro fra un adolescente negletto (Jules Benchetrit, figlio del regista) e un’attrice sul viale del tramonto (Isabelle Huppert, troppo attraente per un ruolo da diva irrimediabilmente sfiorita) si sviluppa nel modo più scontato e accomodante possibile con la solita riflessione sull’accettazione della vecchiaia, l’infatuazione di un misantropo neo-invalido (il film-maker Gustave Kervern) per un’infermiera notturna (Valeria Bruni Tedeschi) si trincera dietro un senso di tenerezza che, nonostante certi ammiccamenti divertenti e spiazzanti (I ponti di Madison County preso come impossibile paradigma di seduzione), si fa alla lunga studiato e artificioso. Decisamente più interessante, pur nella sua sottolineata stramberia, la terza linea narrativa, che unisce la quotidianità di una casalinga algerina (Tassadit Mandi) con lo spaesamento di un astronauta statunitense (Michael Pitt) caduto dal cielo, costretti, dapprima con diffidenza, poi con tacito affetto, a una breve convivenza obbligata.
È qui che l’ambizione di Benchetrit di dipingere un affresco – è il caso di dirlo – cosmico dell’umana solitudine trova la sua espressione più compiuta, originale e autentica, lontano dalla derivatività e dalla leziosità degli altri due episodi, equilibrato nella sua commistione di impaccio e confidenza (la soap opera spoilerata senza ritegno), di pudore e romanticismo – la progressiva identificazione del viaggiatore dello spazio nel figlio assente della padrona di casa –, di silenzio e circostanza, come nell’indimenticabile cena d’addio a base di couscous, dove bastano un piccolo bignami di cosmogonia scarabocchiato su un foglio e un paio di canzoni popolari per superare l’incomunicabilità e per unire due mondi distantissimi.
Considerato nel suo insieme, però, Il condominio dei cuori infranti scade a tratti in quella furbizia che avrebbe voluto scongiurare e si sforza di adottare pose sofisticate senza rispettarne davvero la precisione (non giovano gli interventi sporadici ma comunque fuori luogo della colonna sonora di Raphaël Haroche), ma azzecca, aiutato dalla scelta della plumbea periferia alsaziana come teatro dell’azione, un’atmosfera genuinamente malinconica che nei momenti migliori può farsi persino struggente e sfociare nel metafisico (si pensi alla bella intuizione finale, in cui l’origine del rumore spettrale che infesta la cittadina viene svelato in tutta la sua banalità), un volenteroso squarcio sulla desolazione che con un po’ di coraggio in più si sarebbe potuto considerare pienamente riuscito.
Voto 6
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