Truman – Un vero amico è per sempre

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Dagli adolescenti in piena tempesta ormonale di Krámpack agli spaesati giovani adulti di Ficció, fino al mosaico di quarantenni in crisi di Una pistola en cada mano, la dimensione antropologica di Cesc Gay è sostanzialmente un campionario anagraficamente progressivo di uomini alle prese con il disorientamento e il disagio che accompagnano la transizione alla stagione successiva, un sesso forte reso fragile dalla sua difficoltà ad adattarsi alle disillusioni della crescita e allo scorrere del tempo. Oggi la disamina generazionale del regista iberico avanza di un ulteriore decennio, impartendo una variazione drastica necessaria per rinnovare un discorso che, dopo gli eccessi sovrastrutturali di V.O.S., stava cominciando a girare a vuoto e a chiudersi su se stesso.



A incombere dietro la mezza età dei protagonisti di Truman, infatti, non troviamo, considerati i precedenti, la paura della vecchiaia e del decadimento fisico, ma la metamorfosi ben più radicale e irreversibile del fine vita, un’occasione per Gay per alzare il tiro dalla trivialità del patema verso la maturità dei massimi sistemi. Il risultato è la tappa più equilibrata e compiuta della sua produzione, l’esempio di un cinema intimo e confidenziale capace di schivare le scorciatoie della pornografia dei sentimenti e di affidarsi all’essenziale, una misurata, bilanciata combinazione di calore e pudore, di coinvolgimento e distacco, di intensità e sdrammatizzazione.

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Truman sceglie pertanto un linguaggio basato sullo sguardo e sul gesto per descrivere una storia di fratellanza riconsolidata dall’insorgere della malattia, riducendo il profilo dei suoi personaggi con i loro retroscena a una pura, superflua supposizione e lavorando di sottrazione. È quindi un film giocato sul piano dell’imbarazzo e del sottacere, un esercizio di finezza sul contrasto fra cosa intendiamo dire e come siamo costretti a comunicarlo – si pensi a come viene beffardamente risolta la scena del licenziamento -, sull’omertà del quotidiano che si traduce nel grottesco (il surreale dialogo con l’impiegato delle pompe funebri) o nel patetico, come nel caso della visita lampo ad Amsterdam, struggente acme emotivo della vicenda che funziona perfettamente come piccolo saggio sul non-detto.

Nello stesso modo del Mia madre morettiano, a tirare le fila della narrazione non sono solo le programmatiche fasi del tormento di chi si prepara alla dipartita, ma soprattutto la confusione di chi resta e la vergogna di tutti di affrontarne il tabù, momenti che il cineasta catalano cattura fermandosi subito prima o riprendendo immediatamente dopo una scena madre mancata (il congedo dal figlio espatriato, il colloquio con le potenziali nuove padrone del cane, l’episodio di incontinenza al pub): ne viene fuori un’opera di notevole delicatezza psicologica molto lontana dalla volgarità del canone strappalacrime, soltanto a tratti indebolita da alcune perdonabili sbavature, come i saltuari – ma comunque pleonastici e leziosi – interventi musicali di Nico Cota o un comparto femminile relegato, forse prevedibilmente, vista la connotazione fondamentalmente virile e tendenzialmente misogina dell’universo di Gay, a mero pretesto narrativo (in primis la cugina Paula, motore di un’evitabile catarsi).

Gran parte della riuscita complessiva, corollario di una scrittura sottile e di una regia controllata, è da ascrivere agli interpreti di primo piano, eccellenza della scena ispanofona contemporanea, il divo argentino Ricardo Darín e la rivelazione almodóvariana Javier Cámara – per l’occasione insigniti del Goya, insieme alle tre categorie principali -, il primo un vulcano sommerso di emozioni tenute a freno, il secondo un laconico Pilade ammutolito dalla propria impotenza, entrambi, già dai tempi rispettivamente di Nove regine e di Parla con lei, prototipi di un ventaglio attoriale composito e discreto, intenso senza sfociare nel birignao, amabile senza scadere nella ruffianeria, abile ad assecondare l’idea di un racconto espresso tramite il silenzio e l’impaccio.

È la loro alchimia a confermare quanto Truman, non tanto il nome dell’animale domestico che rappresenta l’ultimo legame con la vita dell’amico morente, quanto il “vero uomo” (“tru(e) man”) che la sfida esistenziale ci costringe a diventare, non abbia come fulcro la morte (“ognuno muore come può”), ma le relazioni – anche “pericolose”, come quelle recitate sul palcoscenico da Julián – che vi si impongono e che permettono di superarla, come suggerisce l’appropriato – per una volta – titolo italiano e un passaggio di consegne finale cui non basta farsi sommesso e anticlimatico per impedire di suscitare autentica commozione.

Un’operazione intelligente, insomma, che coniuga un’evidente meditazione sulla finzione (l’alter ego di Darín, non a caso, è una star del teatro) a un ritratto umano disarmante nella sua naturalezza, cinema medio fatto di persone e di piccole esistenze che non trascende nel popolare e di cui – pure da noi – continua a esserci davvero bisogno.

Voto 7

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