Zeta

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Dopo due notevoli film che, definire pessimisti, non rende appieno l’idea (At the End of the Day e La santa) Cosimo Alemà con Zeta abbandona l’horror ma, attraverso un ritorno a quell’hip hop che ne ha accompagnato gli esordi da regista di videoclip musicali, fa entrare un po’ di luce e di speranza nel suo cinema.
Speranza di riscatto in primis.
Perché la storia di Alex (Diego Germini), giovane rapper in erba – in tutti i sensi – che passa dal banco del mercato in cui dà una mano al padre pescivendolo ai lustrini del facile successo, è innanzitutto una storia di riscatto sociale.
E anche il più classico dei coming of age perché Alex, a nemmeno vent’anni, comprende in fretta come quello stesso successo abbia un prezzo molto alto da pagare che va dalla fine dell’amicizia con gli inseparabili Gaia (Irene Vetere) e Marco (Jacopo Olmi Antinori) alla perdita di rispetto da parte del padre.
Ci si gioca un po’ di innocenza insomma.



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Sebbene il referente principale di Zeta sia indiscutibilmente 8 Mile, Alemà sembra rifarsi a tutto quel cinema, squisitamente artigianale, che vede nel talento personale la sola moneta di scambio per affrancarsi da una vita di miserie e grigiore.
Il fatto che Alex sia un MC connota senz’altro l’opera in termini visivi (oltre a dare giustificare l’enorme quantità di featuring provenienti dal mondo dell’hip hop) ma il protagonista potrebbe tranquillamente essere un pugile (Rocky), una ballerina (Flashdance) o un aspirante bartender (Cocktail) e la sostanza non cambierebbe di molto.
C’è un pattern solidissimo che va dalle lusinghe di un lusso fino ad allora sconosciuto fino alla caduta, a cui in genere segue il tentativo di risalire la china con una consapevolezza ritrovata che Alemà sposa alla lettera, forse anche troppo. Perché il problema fondamentale di Zeta è la sua totale mancanza di originalità o della benché minima volontà di effettuare uno scarto, anche minimo, rispetto a un percorso che, mentre inizia, sai già benissimo dove finirà per condurre.
E’ un errore basilare questo suo non risparmiarsi – e risparmiare al pubblico – nessuno dei principali topoi del genere, dal viscido manager all’amico/vittima sacrificale fino a un padre vedovo e apparentemente burbero che, sul finale, si scioglie in un abbraccio pieno di comprensione e dolcezza repressa a fatica.

Come se ciò bastasse l’autore ha la pessima idea di incorniciare il tutto con una voce over (quella dello stesso Alex) che accompagna le immagini declamando frasi tranchant che vorrebbero richiamare l’apoditticità di certi testi rap ma che, nella realtà, appesantiscono il tutto.
Se, sulla scorta di quanto letto finora, si potrebbe anche pensare ad una bocciatura piena, c’è invece da dire che qualcosa di buono Zeta ce l’ha.
Innanzitutto è un film che non si limita a parlare di musica ma che di musica, in qualche modo, è fatto. La profonda conoscenza del regista del flow e delle scansioni ritmiche tipiche dell’hip hop la ritroviamo infatti nel montaggio e nella secchezza di una storia che evita piuttosto abilmente le temibili pastoie dei tempi morti.
E poi – ma questa era una cosa che sapevamo già – Alemà gira maledettamente bene, basti vedere la lunga scena finale della battle tra MC, davvero notevole.
Certo, ci sono delle ingenuità e il livello della recitazione a tratti sfiora l’amatoriale, ma il problema di come rappresentare al cinema le generazioni più giovani ha prodotto in passato ben altri mostri.
In definitiva Zeta va preso per quello che è: un onesto musicarello dei giorni nostri in cui, al posto di Little Tony o Gianni Morandi, troviamo Salmo, Clementino e Rocco Hunt.
Segno dei tempi.

Voto 5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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