Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Smaltita la sbornia d’Oltreoceano dopo il secondo fallimento consecutivo, con L’estate addosso Gabriele Muccino tenta di svecchiare e di rinvigorire il suo immaginario con un racconto di formazione sintonizzato sulla frequenza di un pubblico tardo-adolescenziale, una specie di declinazione in chiave esotizzante e su larga scala dei patemi generazionali di Come te nessuno mai rifocalizzati alla luce dell’esperienza americana, l’occasione, per il regista romano, per tornare alle origini e disintossicarsi dalla deriva velenosa delle sue più recenti e controproducenti scelte di carriera. Gli argomenti, pressoché invariati dai tempi di Ricordati di me, tornano quindi a essere quelli della produzione di casa nostra, dal binomio evasione/disillusione al trauma del passaggio, puntuale o tardivo, all’età adulta, dal ruolo catartico della fuga allo scontro tra logica e incoscienza alla base delle scelte decisive della vita, calati in un clima di programmatica leggerezza – il post-maturità della pischellaggine pariolina – che pare cancellare qualsiasi pretesa di realismo per esibirsi in una girandola di giovanilismo sfrenato spinto a livelli parossistici, se non addirittura fantascientifici.
Il risultato, prevedibilmente, è l’ulteriore e ancor più ingiustificato atto di ruffianeria di un cineasta da sempre all’inseguimento della spicciolata sociologica del momento e del consenso del proprio pubblico di riferimento, identificato questa volta nelle frotte di aspiranti cervelli in fuga alle prese con le incognite del proprio futuro, la descrizione carica di cliché e di banalità – come nel caso, per restare nell’ambito della programmazione settembrina, del coevo e analogamente fallimentare Questi giorni di Piccioni e lontano anni luce dalla forza demiurgica de I miei giorni più belli di Desplechin – di un universo twentysomething totalmente scollato dalla realtà, esistente solo in quanto specchio della nostalgia e della deformazione narcisistica del suo autore.
Ed è qui, ancor più che negli eccessi melassosi di Padri e figlie, che la formula di Muccino smarrisce ogni parvenza di serietà e si trasforma definitivamente nella parodia di se stessa, in un’illustrazione acritica, idilliaca e ancor più confortante del solito che, più che attenuare i toni, finisce per azzerare drammaturgicamente la storia e per spappolarne la portata emotiva, nella convinzione che lo zibaldone tematico che va dal bildungsroman allo spaccato sociale, dalla disamina dei rapporti di coppia alla dimensione orizzontale del road movie compensi con la sua mole e la sua genericità la superficialità dell’insieme, evitando qualsiasi approfondimento e facendo leva esclusivamente sulla sua ostentata – e mai spontanea – spensieratezza.
Se l’attitudine resta, come sempre, facilona e vagamente fuori dal mondo – si parla di crisi economica e di assenza di prospettive, ma nel clima festaiolo generale è come se non esistessero –, la forma, da sempre uno dei rari, instabili appigli del cinema di Muccino, regredisce a quella di una misera fiction di seconda fascia di sconsolante piattezza che non tradisce la minima ombra del mestiere che fu, un’alternanza costante fra classiche situazioni da tinello, a partire dall’immancabile sceneggiata in corridoio, e stralci da filmini delle vacanze buttati in mezzo a mo’ di fegatelli, come l’inqualificabile sequenza discotecara e la gratuita digressione cubana, poco più di un pretesto a cast e troupe qualche giorno di relax a L’Avana.
Un’indolenza, anzi, una regressione registica che fa il paio con una scrittura svogliata e approssimativa dove ogni conflitto è risolto tra dialoghi sentenziosi a livello Smemoranda – per non parlare della micidiale voce off -, climax da burletta (la scena, involontariamente autoreferenziale, della potenza catartica dell’urlo e quella, pietosa, della sfuriata in aeroporto) e caratterizzazioni ai limiti dello stereotipo, dallo sbarbatello impacciato alla ricerca della sua identità sessuale alla puritana parafascista convertitasi al libertinismo con un colpo di vento, ma a farne le spese maggiori è il calderone della comunità LGBT, cui Muccino vorrebbe restituire, grazie soprattutto alla naturalezza dei protagonisti Joseph Haro e Taylor Frey, spanne sopra l’isterismo incontrollato dei divetti televisivi nostrani Brando Pacitto e Matilda Lutz, un’autenticità inusuale per il nostro cinema popolare e che invece introduce, spiega e didascalizza con metodi da Prima Repubblica.
L’estate addosso, insomma, cerca maldestramente di dissimulare dietro alla sua apparente ingenuità e alla sua mancanza di ambizione la crisi irrecuperabile di un autore diventato l’interlocutore unico della propria opera e, forse, la voce più anacronistica e meno interessante della scena cinematografica nostrana di oggi, l’ultimo capitolo di un bluff durato troppo a lungo meritatamente destinato, nonostante la triste e significativa piattaforma di lancio offerta dalla Mostra di Venezia, all’oblio e all’indifferenza.
Voto 3
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