Ewan McGregor presenta Pastorale americana

Di Fabio Giusti
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Ewan McGregor è di passaggio in Italia per presentare Pastorale americana un film importante per vari motivi.
Innanzitutto perché è tratto da uno dei romanzi più difficilmente traducibili in immagini che si possa immaginare, quel Pastorale Americana con cui Philip Roth vinse il Premio Pulitzer per la narrativa nel 1998.
E poi perché segna l’esordio di McGregor alla regia dopo un quarto di secolo in cui l’attore è passato agilmente dai primi film di Danny Boyle (per chi scrive è e rimane il Renton di Trainspotting) a Hollywood.
E per quanto possa apparire strano che un attore scozzese approcci, per la sua prima prova da regista, il capolavoro del più americano degli scrittori viventi, si rimane conquistati dall’entusiasmo con cui McGregor parla di questa rischiosissima scommessa.

Allora Ewan, come è andata questa tua prima volta dietro la macchina da presa?



Non poteva andar meglio.
È stata un’esperienza che mi ha radicalmente cambiato e mi ha fatto crescere come essere umano.
Un’esperienza che, tra l’altro, sognavo di fare da molti anni.
Mi interessava tutto il processo che sta dietro la realizzazione di un film, dalle prime discussioni con lo sceneggiatore fino alla post-produzione.
Ovviamente, essendo io prima di tutto un attore, ero anche curioso di capire come avrei costruito le scene insieme agli altri interpreti.
Inoltre ho scoperto tutti quegli aspetti da cui gli attori vengono in genere tutelati durante le riprese di un film, come i possibili dissidi all’interno della troupe o l’attività più propriamente manageriale che c’è dietro.
Ho scoperto infatti che buona parte del lavoro del regista è di tipo gestionale.

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E non avevi paura di affrontare un romanzo così complesso?

American Pastoral è senza dubbio un romanzo straordinario ma, nel momento in cui sono stato coinvolto nel progetto io non lo avevo ancora letto.
Ho letto infatti prima lo script di John Romano. Una sceneggiatura che mi ha toccato nel profondo e commosso, cosa non comune quando si legge una sceneggiatura.
Immagino che c’entri anche il fatto che io sia padre di quattro figlie e questa sia la storia di una famiglia che perde una figlia in modo così estremo.

Quindi il tuo essere genitore ti ha aiutato nell’interpretare questa figura così complessa di padre?

Nel lavoro di attore devi attingere in egual modo sia dalla tua esperienza che dalla tua immaginazione.
Ovvio che se interpreti il ruolo di un serial killer devi affidarti più alla tua immaginazione.

Come hai scelto la straordinaria bambina che interpreta tua figlia da piccola nel film?

Avevamo bisogno di tre attrici che coprissero lo stesso ruolo all’età di sette anni, tredici e poi dai sedici anni in su.
Sapevamo già che Dakota Fanning avrebbe ricoperto questa terza fase anagrafica, per cui il principale criterio di scelta riguardava il fatto che le altre due dovessero essere credibili come bambine che poi sarebbero diventate Dakota.
Ho visionato tantissimi provini – alcuni di bimbe “adulti” anche vagamente inquietanti – e, alla fine, ne ho selezionate cinque con cui fare delle letture.
Tra queste ho scelto poi quella maggiormente capace di allontanarsi dalla traccia che si era preparata.

C’è una connessione tra le vicende raccontate nel film e l’attualità statunitense?

American Pastoral – sia il libro che il film – esplora un momento ben specifico della storia americana, quello in cui la generazione del dopoguerra, quella dell’American Dream, entra in rotta di collisione con la generazione successiva, politicizzata in termini sempre più radicali.
Il film si concentra molto su questo scontro generazionale.
Gli scontri tra polizia e afroamericani che si vedono nel film possono poi, in qualche modo, ricordare vicende più attuali, così come i riferimenti al terrorismo ma non era mia intenzione parlare di attualità

Da Danny Boyle a Polanski passando per Woody Allen, nella tua carriera hai lavorato con alcuni dei registi più importanti al mondo. A chi ti sei ispirato maggiormente per questo tuo primo film da regista?

Nei miei 25 anni di carriera ho avuto la fortuna di venire a contatto con un’ampia gamma di registi, dai più grandi ad alcuni meno bravi e credo di aver preso qualcosa da tutti.
L’attore, in questo senso, si trova in una posizione privilegiata perché può osservare il lavoro del regista svolto da persone diverse.
Quello che capisci, alla fine, è che non c’è un modo giusto e uno sbagliato di dirigere un film, piuttosto ci sono cose che funzionano e altre che funzionano meno in determinate circostanze.
Danny Boyle è stato senz’altro il regista con cui ho iniziato e che mi ha definito in quanto attore nel passaggio da Piccoli omicidi tra amici a Trainspotting e poi a Una vita esagerata.
La cosa più importante di Danny era che ti guardava, coglieva quello che stavi facendo e questa, per un attore, credo sia la soddisfazione più grande.
Altri registi si limitano a darti delle indicazioni e tu realizzi ben presto che non c’è la minima sintonia tra di voi.
Ecco, quello che più spero è di non essermi rivelato di un regista di questo tipo.

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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