Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Un capolavoro fatto e finito.
Questo è Moonlight, opera seconda di Barry Jenkins che quasi spaventa per la maturità che dimostra nel maneggiare una storia semplice e, allo stesso tempo, così complessa.
Coming of age di rara delicatezza che segue un uomo alla disperata ricerca di sé in tre capitoli che corrispondono alle tre principali fasi della sua esistenza – l’infanzia, l’adolescenza e la maturità – Moonlight racconta la nascita di un fiore nel deserto.
Il deserto in questo caso è più che altro un deserto dei sentimenti (la periferia di Miami) dove qualsiasi segno di sensibilità viene percepito come una debolezza e il fiore è Chiron (Trevante Rhodes) giovane afroamericano, figlio di una tossica, bullizzato dai ragazzi del quartiere proprio perché troppo poco cattivo rispetto agli standard comportamentali di zona.
E Jenkins ci mostra questo fiore mentre soffre senza mai smettere di stringere i denti, trova un mentore che si rivela essere, almeno in termini temporali, poco più di una meteora e inizia a provare dei sentimenti per l’unica persona che gli ha mostrato un po’ di rispetto e comprensione.
Come un uppercut che colpisce prima allo stomaco e poi al cuore le usuali dinamiche di genere legate al cinema black vengono ribaltate radicalmente aprendo spiragli di inusitata poesia laddove qualunque altro regista avrebbe spinto su una descrizione ancora più dettagliata dello squallore di certa suburbia. Non siamo, per intenderci, dalle parti di Precious. Eppure, anche in certe sue derive più liriche, Jenkins riesce ad essere più politico di altri autori dal piglio maggiormente documentaristico e dipinge un ritratto solidissimo di cosa possa voler dire essere neri oggi in America.
Lo fa attraverso la giustapposizione di poche scene, tutte piuttosto lunghe, in cui incredibilmente riesce a sintetizzare gli snodi focali di una vita intera. In particolare l’ultimo di questi quadretti – quello che mostra l’imbarazzo di ritrovare la persona amata dopo anni di lontananza, senza sapere neanche cosa dire – è una delle cose più inaspettatamente romantiche viste ultimamente al cinema, pur non garantendo affatto alcun lieto fine.
Presentato prima all’ultra-indie Telluride Film Festival e poi a Toronto, Moonlight è un’opera pressoché perfetta nel suo ribaltare i principali stereotipi della black culture per offrirci uno spaccato di vita urbana in cui la droga è sì una dannazione, ma può anche rappresentare una possibilità di salvezza per il protagonista che, attraverso lo spaccio, ottiene una legittimazione di ruolo. E in cui un omaccione a metà strada tra 50 Cent e Kanye West può abbandonare momentaneamente le pose gangsta e la sua dentiera d’oro per sdilinquirsi e balbettare incerto di fronte all’oggetto del suo amore di sempre.
Un film che è un’autentica gioia, sia per gli occhi che per il cuore.
Voto 8
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
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