Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
C’è una linea sottile ma molto netta che separa la semplificazione dallo svilimento e la commercializzazione dal gioco al ribasso: la si è oltrepassata tante di quelle volte, nel panorama artistico nostrano, da aver fatto regredire lo standard dell’intrattenimento di massa al desolato acquitrino paratelevisivo di oggi e da aver generato un’ambiguità profonda, quasi inestricabile, fra il popolare e il triviale.
E c’è un confine altrettanto labile ma evidente tra la dichiarazione di intenti e l’alibi, tra la coerenza e la furbizia, tra la buona fede del cineasta e la sfacciataggine del comune paraculo, un equivoco che, fra sconsolanti commedie da esportazione e incursioni dozzinali nella produzione di genere, ha permesso al 2016 di guadagnarsi la reputazione di sedicente “anno della rinascita”.
All’anglo-pisano Roan Johnson, viste le circostanze e il momento favorevole, vanno quindi perlomeno riconosciute una notevole tempestività e una buona conoscenza delle basilari tecniche di promozione, elementi imprescindibili di una strategia senza la quale il suo Piuma avrebbe imboccato immediatamente la via dell’oblio: questo perché, al di là delle supponenti frasi di lancio – “il film più leggero dell’anno”, nientemeno -, del martellante tam tam mediatico e dei ridicoli piagnistei contro “lo snobismo di certa critica” all’indomani delle proiezioni stampa, c’è effettivamente il nulla, o quantomeno l’assenza di qualunque parametro contenutistico ed estetico su cui spendere due parole.
Non molto diversamente dal Muccino del coevo L’estate addosso, Johnson confonde la naturalezza con la sciatteria e la disinvoltura
con la superficialità, disseminando il suo canovaccio sul preludio alla genitorialità adolescenziale – che più che a un Juno all’amatriciana fa pensare a un parziale remake di Per gioco e per amore di Avildsen – di vieti e abusati stereotipi, dall’immaturità e dall’egoismo delle figure materne e paterne (l’inguaribile bamboccione di Francesco Colella e il frustrato cosmico di Sergio Pierattini) alla caricaturalità dei personaggi di contorno (dal nonno sclerotico e complice di Bruno Sgueglia alla sciroccata fisioterapista cannettara di Francesca Turrini), fino a una coppia di telegenicissimi protagonisti già pronta per il piccolo schermo (il pressoché esordiente Luigi Fedele e la Blu Yoshimi di Caos Calmo) che snocciola perle di saggezza, preferibilmente in voice-over, degne delle immaginette per quarantenni su Facebook, il tutto con la ferma convinzione di offrire uno spaccato originale e anticonformista su un Paese a metà fra crisi ed evasione.
Col risultato, però, sempre in nome di un’ostentata spensieratezza, di perdere qualsiasi nesso con la realtà e di negare ogni tipo di coinvolgimento, sciogliendo interi nodi narrativi, conflitti e difficoltà – non troppi, per carità, ché, a detta di Johnson, “c’è bisogno di leggerezza” – con la caciara (gli incontri tra i futuri consuoceri) o con la smanceria (l’mp3 risolutivo che assicura un epilogo tutto tarallucci e vino), adottando costantemente le soluzioni più confortanti con la facile scappatoia programmatica di cui dicevamo in apertura, e la ragion d’essere di un’operina come Piuma sta tutta lì, nella compiacenza che si fa cifra stilistica e motore unico delle situazioni, al punto tale da rendere completamente superflua la forma, appiattita al livello della fiction più tirata via e irricevibile quando tenta goffamente di distaccarvisi, come nelle abominevoli digressioni surreali con i due ragazzi a nuoto per le strade di Roma e nell’ecografia o nell’aneddoto sulle paperelle di gomma.
Perché l’autore di Fino a qui tutto bene, per quanto indefessamente ci provi, non è il Paolo Virzì genuinamente naif della prima ora e Piuma non è il suo Ovosodo, ma soltanto un cinico esperimento a tavolino in cui ogni apparente ingenuità è frutto di un calcolo preciso che ottiene il solo effetto di ritorcerglisi contro e che va ben oltre il film in sé, a cominciare dalla sua “irriverente” inclusione in Concorso (anzi, verrebbe da dire contro Concorso) all’ultima Mostra di Venezia, che poi è l’unico motivo per cui la pellicola ha ottenuto i suoi quindici minuti di visibilità e siamo ancora qui a parlarne.
C’è una differenza sostanziale, insomma, fra la levità e l’inconsistenza, e l’esempio, solo per citare le uscite di questa stagione, di Tutti vogliono qualcosa di Linklater e di Microbo & Gasolina di Gondry ci ricorda che il piacere di essere frivoli non corrisponde necessariamente a scadere nel becero e a sacrificare tutto sull’altare del divertimento a tutti i costi, e in questo senso Piuma nulla aggiunge e nulla toglie a una delle poche certezze che abbiamo entrando e uscendo dalla sala, e cioè che, con questi modelli, con quest’attitudine e con queste maestranze, il nostro cinema “medio” è destinato a non rinascere mai.
Voto 3
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