Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Con Coraline e la porta magica e ParaNorman la Laika Entertainment ci aveva letteralmente conquistati tanto che, con la battuta di arresto che l’uscita del meno riuscito Boxtrolls, si è temuto che lo studio di animazione statunitense non avrebbe più retto confronti con la Disney-Pixar, la DreamWorks e con gli altri giganti dell’animazione. Ma Kubo e la spada magica ha fugato questo pericolo, confermando come la Laika sia non solo viva e vegeta, ma anche pronta a dare del filo da torcere agli altri Studios. 145mila fotogrammi, 23.187 prototipi del volto del protagonista (il che vuol dire circa 48 million di diverse espressioni facciali) e un team di animatori che ha lavorato ininterrottamente per due anni: tanto ci è voluto a completare quello che è senza ombra di dubbio il prodotto tecnicamente migliore della casa di Hillsboro. Diretto dall’esordiente Travis Knight (qui al suo primo film da regista, ma era stato già produttore degli ultimi due film della Laika) Kubo e la spada magica è un cartoon profondo e riflessivo, scandito da tempi non sempre serrati, ma funzionali al fluire del racconto che tocca temi quali famiglia, amore, memoria e perdono.
Realizzato in stop motion come i precedenti film della Laika, Kubo e la spada magica racconta di un epico viaggio nel Giappone feudale, con una storia che si interroga sulla valenza della memoria. Siamo in un piccolo villaggio di pescatori dell’antico Giappone, qui il giovane Kubo mantiene se stesso e la madre esibendosi come cantastorie e animando origami grazie alla magia e al suono del suo shamisen (un tipico strumento giapponese a tre corde). C’è solo una regola da rispettare: mai stare fuori dopo il tramonto. Un giorno Kubo si attarda dopo il calar del sole e si ritrova braccato da esseri potenti e malvagi, gli stessi che anni prima hanno fatto del male a sua madre.
La vicenda di Kubo, il ragazzino senza un occhio il cui più acerrimo nemico è uno dei membri della sua famiglia, segue la classica struttura della fiaba, ma anche le esperienze archetipiche del viaggio dell’eroe: Kubo ritrova nei suoi compagni di viaggio dei mentori e, grazie a loro, riesce a superare alcune prove di coraggio che lo porteranno al combattimento finale con il villain di turno. E in questo il film non apporta nulla di nuovo alla tradizione dei cartoon. L’aspetto che è invece strabiliante, va cercato nell’esperienza visiva che Kubo regala, con quei disegni insoliti per un film animato, fatti di linee taglienti e angoli acuti, nella texture legnosa che tanto ricorda le xilografie di Kiyoshi Sait? e che rappresentano l’aspetto più caratteristico della pellicola, con quell’effetto granuloso visibile in ogni sequenza. Da un film così, ad uscirne vincitrice è soprattutto la tecnica dell’animazione a passo uno, con quel desiderio di dar vita alla frangia più indie dei cartoon di oggi, dimostrando ancora una volta di non avere nulla da invidiare ai più commerciali prodotti in CGI.
Voto 7,5
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