Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Non ce ne vorrà Francesco Amato se l’impressione è che questo Lasciati andare più che per il suo ritorno dietro la macchina da presa a cinque anni da Cosimo e Nicole, si faccia notare – e un minimo si discosti dall’impressionante quantità di commedie nostrane che si vorrebbero brillanti ma la cui opacità ormai va di pari passo coi tiepidi risultati al box office – per l’adesione di un interprete come Toni Servillo ad un registro leggero lontano anni luce dalle sue corde abituali.
Di fatto lo sconfinamento dell’attore feticcio di Paolo Sorrentino verso lidi più dichiaratamente ridanciani travalica l’effettivo valore di un’opera che, a conti fatti, non fa quasi nulla per allontanarsi da un pattern che è quanto di più classico si possa immaginare in termini di medietà drammaturgica.
Sì, perché l’effetto comico viene in fondo ricercato nella solita giustapposizione forzosa di due idealtipi umani all’apparenza inconciliabili: da un lato il monolite borghese, rappresentato in questo caso da un irreprensibile e abitudinario psicanalista ebreo, e dall’altro questa scheggia impazzita/personal trainer che irrompe a stravolgere l’ordinarietà del primo e la cui carica esotica dovrebbe essere garantita già dal semplice fatto di essere spagnola.
Per quanto quest’ultimo elemento potrebbe facilmente far pensare al peggio – e quindi al primo Pieraccioni – la sceneggiatura (opera dello stesso Amato, insieme a Francesco Bruni e Davide Lentieri) si adagia in realtà fin da subito su stilemi molto più vicini a quelli di un Verdone minore.
Così, fatta eccezione per un’ambientazione ebraica inusuale per i nostri standard, tutta la prima parte del film è giocata sull’incontro/scontro tra un mondo così intellettualizzato da aver perso quasi ogni traccia di spontaneità e, al suo esatto opposto, la fisicità più pura e libera da sovrastrutture mentali di sorta.
Va da sé che i momenti in cui vediamo un imbolsito Servillo affannarsi tra flessioni e jogging strappano pure qualche risata, ma lo fanno in un modo amaro, che va ben oltre i limiti della loro cornice e trova la sua esemplificazione massima nella scena in cui lo stesso attore fa il suo primo ingresso in un affollatissimo fitness center per la sua lezione di prova.
Lo spaesamento sul volto di Elia di fronte a quel trionfo di bilancieri, muscoli e sudore andrebbe infatti letto in chiave metanarrativa, ossia come il palesarsi di un gap per lo più incolmabile tra un corpo filmico che siamo abituati ad associare ad altri (e più alti) contesti e un ambiente che, molto semplicemente, riconosce non essere il suo.
In quel preciso istante è come se la commedia popolare si prendesse la sua rivincita sul cinema d’autore fagocitandone uno dei suoi massimi significanti.
Per comprendere appieno questo concetto basterebbe sostituire mentalmente l’immagine di Servillo con quella di un attore meno decontestualizzato: chessò, Marco Giallini.
Vedreste a quel punto salire a galla tutti i limiti di uno script che basa buona parte della sua ragion d’essere esclusivamente sulla natura aliena del suo protagonista.
Che, essendo anche un mostro di bravura, regala comunque al film il valore aggiunto ricercato.
Discorso simile anche per i notevoli comprimari Carla Signoris, Pietro Sermonti e il più sacrificato Giacomo Poretti.
L’asticella, poi, sale ulteriormente quando sullo schermo appare un altro mostro: Luca Marinelli che, in un sol colpo, cortocircuita Monicelli e Caligari nello stesso personaggio riuscendo, allo stesso tempo, nell’impresa di rubare parte della scena al capocomico.
L’attore romano, oltre a confermare il suo momento d’oro, offre l’ennesima dimostrazione di bravura e versatilità passando dal registro drammatico a quello comico nell’arco di pochi istanti e senza soluzione di continuità.
Ed è curioso ricordare come Servillo e Marinelli si fossero già incrociati proprio ne La grande bellezza, di cui questo Lasciati andare senza volerlo rappresenta una sorta di contraltare semantico.
Se infatti nel capolavoro di Sorrentino l’esposizione prolungata a una realtà che è altro da sé finiva con il corrompere Toni Servillo/Jep Gambardella, qui accade l’esatto contrario e, quello stesso confronto, in qualche modo lo salva.
Voto 6
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