Mal di pietre

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Nonostante l’ultima Palma d’Oro porti chiaramente e orgogliosamente il nome maschile del nuovo eroe proletario di Ken Loach, a definire il concorso cannense dello scorso anno è stato soprattutto uno sguardo sulle molteplici declinazioni del femminino, una galleria policroma di minuziosi, sfaccettati ritratti di donna, dal fatalismo della Julieta almodovariana all’ossessione de La ragazza senza nome dei Dardenne, dalla calcolata ferocia di Elle alla pericolosa innocenza di The Neon Demon, passando per le battaglie civili di Aquarius e la crisi esistenziale di Vi presento Toni Erdmann, per l’autorità matronale di Ma’ Rosa e la desolazione giovanile di American Honey, senza dimenticare gli intrighi morbosi di The Handmaiden e i tormenti ultraterreni di Personal Shopper.



Circondato da un catalogo tanto composito e in grado di offrire una prospettiva aggiornata sul gentil sesso, l’adattamento per lo schermo del best-seller che dieci anni fa rivelò internazionalmente il talento di Milena Agus sembra – e sembrò allora, a giudicare dall’accoglienza belluina sulla Croisette – provenire da un’epoca lontanissima e da un universo concettuale fermo alle coordinate della letteratura rosa più passatista e manierata: c’è poco da imputare alla pagina scritta, tuttavia, se si considera che gli elementi che rappresentavano la peculiarità di un testo semplice ed essenziale come Mal di pietre, dalla sua cornice transgenerazionale alla determinante connotazione storico-territoriale nella magica e arcaica Sardegna post-bellica, per non parlare della sua chiara matrice meta-letteraria, finiscono per rimanere, per l’appunto, sulla carta, lasciando alla reinvenzione della settantenne Nicole Garcia solo gli ingredienti grossolani di un generico feuilleton di terz’ordine.

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All’autrice di Place Vendôme non resta quindi che sguazzare nel languore sonnacchioso di una storia di ordinaria follia, raccontando l’insopprimibile mal d’amore e il senso di confusione fra realtà e proiezione dell’indomita zitella Gabrielle, una versione piccolo borghese della Signorina Julie strindberghiana e della Adèle H. di Truffaut, spogliandola però di qualsiasi statura tragica e riducendone l’alienazione mentale a un’approssimativa sete di passione e di evasione dalle meschinità della provincia, puntando tutto sui toni inquieti e concupiscenti della performance di una Marion Cotillard mai tanto monocorde e sbiadita, penalizzata dalla caratterizzazione sgradevole di un personaggio principale con cui risulta davvero difficile empatizzare, pervasa da una sensualità acerba e repressa che mal si addice al portamento regale e maturo di un’interprete così appariscente.

Ciò facendo, il resto del film si accontenta di affastellare meccanicamente i cliché più disparati dell’immaginario romantico, ma fraintendendo profondamente lo spirito sottilmente revisionista che animava l’opera di partenza: se la Agus si appropriava delle situazioni base del canone sentimentale da Emily Brontë in giù riproponendole in sedicesimo e ribaltandone gli sviluppi – in primis il reduce mutilato e macilento che funge da impossibile corrispettivo di Heathcliff e che Louis Garrel incarna con il suo solito e ormai involontariamente autoparodico allure maledetto –, la Garcia aderisce alla formula abbracciando la convenzione più trita, affidandosi a una raggelata, turgida estetica tirata a lucido – in particolare nella lunga sezione dedicata al ricovero in Svizzera – che cerca il sussulto soltanto di rado e a bella posta (il dettaglio ginecologico sulla Cotillard che entra in acqua, il bidet dopo una triste prestazione sessuale mercenaria, la lotta acquatica fra i coniugi) e capace di poche, timide e superflue trovate visive che spezzino la medietà dell’insieme, come il profilo di Gabrielle che emerge lentamente dalle tenebre del casotto alla notizia del suo possibile internamento o la panoramica dal pianoforte che parte dalla protagonista incinta e si chiude su suo figlio già adolescente.

E se, anche per via di una durata sfiancante che dilata oltre misura gli eventi, la gestione dei tempi del melodramma è mal calibrata, fra sequenze di pura catatonia alternate a inconsulte accelerazioni, a cominciare dalla repentina scoperta, a pochi minuti dall’inizio, che prelude al flashback centrale, a infliggere il colpo di grazia è la rivelazione a sorpresa che porta alla luce la vera natura dei ricordi di Gabrielle, soluzione invero già presente nel libro che però la Garcia travisa, spettacolarizza ed enfatizza con totale sprezzo della logica e del ridicolo, ricercando disperatamente in extremis la commozione che il velleitario lavoro di sottrazione della regia aveva fino a quel momento negato.

A mancare completamente, insomma, è quella “dimensione creativa intesa come reazione all’esasperazione del desiderio” che costituiva l’essenza di Mal di pietre e che era precisa cura della Garcia traslare sulla scena, sostituita da un’attitudine moraleggiante e in fin dei conti ipocrita – tanto da fare dell’avveduto marito José (Alex Brendemühl) l’ago della bilancia della vicenda – che oltre a banalizzare il tutto e a fargli imboccare la strada del romanzo d’appendice più dozzinale rende l’operazione ancora più irricevibile e respingente.

Voto 4

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