Song to Song

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«A volte basta un accordo, uno solo». Così recita la sacerdotessa del rock Patti Smith a un certo punto di Song to Song. Un aforisma che Terrence Malick sembra aver sposato, fatto proprio e riadattato al suo cinema dai tempi di The Tree of Life. Con la pellicola vincitrice della Palma d’Oro a Cannes nel 2011, il regista americano ha infatti iniziato un percorso ben preciso, impostando la sua arte su una monotonia costante e riconoscibile, inseguita anche in To the Wonder e Knight of Cups. Ma quando ci aveva ormai del tutto convinti che la sua riflessione sul cinema stava andando definitivamente verso la disgregazione dell’oggetto filmico, tramutato in situazioni, momenti e suggestioni quasi del tutto privi di nessi narrativi a sostenerlo, ecco che con Song to Song si avverte una leggera inversione di rotta e, del film, si intravede persino una trama. Labile e fluida, che continua a rispecchiare un’istanza creativa libera e spontanea, ma pur sempre una trama.



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BV (Ryan Gosling) è un musicista in cerca di successo con l’aiuto della compagna, musicista anche lei, (Rooney Mara) e del suo produttore Cook (Michael Fassbender). Tra i tre si instaura un legame che va oltre il semplice rapporto professionale e che coinvolge anche la giovane cameriera Rhonda (Natalie Portman). Di sfondo c’è Austin, Texas, capitale della musica live, nota per i suoi numerosi festival musicali e per le masse di aspiranti musicisti in cerca di successo e libertà creativa. Malick ha girato il film durante tre festival musicali: l’Austin City Limits Festival, il South by Southwest e il Fun Fun Fun Fest, sfruttando nel film le apparizioni di Iggy Pop, dei Florence and the Machine, di Patti Smith (che dispensa consigli a Faye) dei Red Hot Chili Peppers e di tanti altri artisti.

Si passa così, di canzone in canzone, dalle platee oceaniche di fan che affollano le esibizioni dei loro idoli, ai primi piani sul volto di una Rooney Mara mai così bella, intimi e silenziosi. Nel raccontare a modo suo le difficoltà dell’amore in ogni sua forma con lo stile rarefatto che lo contraddistingue, Malick si serve ancora una volta dell’occhio sapiente di Emmanuel Lubezki che, perfettamente in grado di cogliere le necessità artistiche del regista, sposta ancora più in alto il livello di astrazione delle immagini, regalando loro una spontaneità e una poeticità impressionanti, con la macchina da presa che si muove leggera, oscillando e ondeggiando come fosse una farfalla.
C’è bellezza ovunque in Song to Song, nei volti dei suoi protagonisti (anche se tra tutti Malick sembra voler indugiare di più su quello di una diafana Cate Blanchett), nelle numerose inquadrature di mani che accarezzano corpi, che tentano di afferrarli, che si stringono e che si lasciano, negli sguardi non rivolti, in quelli cercati e rincorsi. E c’è quell’apparente mancanza di regole che ha fatto di Malick l’autore delle contraddizioni, quello che si odia o si ama, al quale va sicuramente riconosciuto il merito di aver riscritto la grammatica filmica e aperto lo sguardo su di un mondo espressivo sconosciuto, fatto di flussi di coscienza e turbinii emozionali, all’interno di una dimensione che valica i confini delle arti visive.

Voto 7

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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