Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
C’è uno marcato spartiacque tematico ed espressivo a separare gli esordi nella fiction di Hirokazu Kore-eda alle successive opere della maturità, una specie di rito di passaggio privato e artistico capace di trasportare un cinema sin dagli albori affascinato dall’imperscrutabile, dall’inspiegabile e dall’arcano – il cupio dissolvi di Maborosi e di Distance, la sospensione limbica di After Life, il futuro interrotto di Nessuno sa – sui binari del concreto e dell’ordinario, la decisione consapevole, in altre parole, di accantonare l’indefinito per affrontare direttamente la complessa, composita banalità della vita di tutti i giorni.
Prima di Still Walking, poi, era impossibile rintracciare nell’universo relazionale della sua filmografia la presenza effettiva e tangibile di un padre (suicida in Maborosi, ignoto e indeterminato in Nessuno sa, da vendicare in Hana), individuando, al contrario, proprio nella sua assenza il motore e la giustificazione delle circostanze: è stato indispensabile per il cineasta nipponico, quindi, smettere i panni di figlio e indossare quelli di capofamiglia non solo per superare il personalissimo trauma provocato dalla latitanza paterna, ma anche per ripopolare quel suo comparto umano, composto essenzialmente da orfani, vedove e derelitti di ogni sorta, con archetipi maschili maturi con cui misurarsi e identificarsi, per tentare di ricompattare nella finzione quel focolare domestico negatogli dalla realtà.
Se in principio i nuclei parentali di Kore-eda, dunque, erano destinati ad andare alla deriva e a disgregarsi, a cominciare dalla riunione commemorativa del già menzionato Still Walking tendono invece, se non a rinsaldarsi, perlomeno a cercarsi e a riavvicinarsi. Dall’agognato ricongiungimento fraterno di I Wish alla sorellanza allargata di Little Sister, per non parlare della presa di coscienza genitoriale di Father and Son, si notano un’attenzione tutta nuova e un atteggiamento di maggiore immedesimazione e vicinanza nei confronti dell’istituzione familiare e di chi ne fa parte, un’ottica che sacrifica le velleità liriche e le asperità degli inizi in favore di una contagiosa gentilezza e di una impalpabile grazia.
Ritratto di famiglia con tempesta è l’ulteriore esempio di un corso ormai consolidatosi, assestatosi in equilibrio fra sentito autobiografismo e disamina generazionale, uno studio di carattere che si ricollega idealmente tanto, nella sua prima parte, allo scavo individuale di Father and Son – e più precisamente alle implicazioni fondamentali dell’essere uomo – quanto, nella seconda, all’adunanza rievocativa di Still Walking, e non è certamente casuale non soltanto la scelta di affidare nuovamente all’amico e alter ego designato Hiroshi Abe il ruolo principale, ma anche la coincidenza onomastica che lega i protagonisti di tutte e tre le pellicole. Viene pertanto naturale considerare quest’ultima fatica di Kore-eda una sostanziale summa del suo pensiero e della sua poetica – “se nell’aldilà Dio mi chiedesse che cosa ho fatto della mia vita, gli mostrerei prima di tutto questo film” –, un riassunto dei tratti più caratteristici e basilari della sua produzione, probabilmente, nel bene e nel male, il culmine del suo manierismo.
Innanzitutto è ancora una volta la morte di un congiunto a fungere non da epicentro drammatico, ma, rigorosamente introdotto a freddo e in medias res, da evento catalizzatore delle vicende, in questo caso il confronto tra il cinquantenne Ryota, romanziere fallito riciclatosi investigatore privato, e il parentado che in lui sembrava aver investito tutte le sue speranze, dalla pragmatica ex-moglie Kyoko (la Y?ko Maki di Father and Son) alla realizzata sorella maggiore Chinatsu (Satomi Kobayashi), dal figlio negletto Shingo (Taiyô Yoshizawa) all’anziana genitrice condannata alla solitudine di un modesto complesso residenziale (Kirin Kiki, attrice feticcio del regista, con cui Abe ricostituisce lo stesso rapporto filiale di Still Walking).
Kore-eda si prende i suoi tempi, anzi, permette che gli ingredienti della storia – come suggerisce la metafora culinaria in apertura – acquistino sapore a cottura lenta, concedendosi un’intera ora di excursus narrativi e di giri a vuoto per favorire la confidenza con i suoi personaggi, con un gusto aneddotico che, oltre al modello riconosciuto del microcosmo casalingo di Mikio Naruse, pare pescare da certa tradizione comica nostrana (e non sbaglia chi intravede nel profilo dell’eterno spiantato Ryota l’ombra del Walter Chiari de Il giovedì).
Ne esce un’opera forse fin troppo adagiata sulle soluzioni più programmatiche (la dipendenza dal gioco d’azzardo, le ristrettezze economiche, le mortificazioni lavorative) e minata da una certa tendenza, soprattutto nei dialoghi, a una ridondante sottolineatura didascalica, ma colpisce ancor più del solito la facilità con cui Kore-eda, impostando il film lungo un crescendo che dalla prevalenza iniziale di piani medi passa progressivamente al campo ravvicinato a mano a mano che, con l’incombere e il manifestarsi della tempesta, gli spazi si restringono, scatenare l’empatia e la partecipazione di chi guarda senza scadere nell’ovvietà e nel ricatto, magari con un approccio meno sfaccettato e più armonizzato che in precedenza, ma con una lucidità e una trasparenza di sguardo che lasciano disarmati.
È così, con l’attitudine di chi, dopo una carriera all’insegna del transfert, può finalmente mettere in scena se stesso, che Kore-eda riesce a trattare argomenti e problematiche di certo non inediti (il dolore del rimpianto e la necessità del letting go, la paura delle tare ereditarie, la fine dei sogni di gioventù) con grande freschezza e spontaneità, arrivando a toccare momenti di struggente tenerezza, dai duetti con la madre al pomeriggio lungo il quale Ryota cerca di dissimulare a Shingo la propria indigenza, fino al pre-finale all’interno dello scivolo transennato in cui la famiglia si ritrova per l’ultima volta mentre fuori si abbatte la furia della natura. È cinema dei sentimenti nella sua forma più pura e sottile, affettuoso ma schietto, amabile ma ragionevole, guidato da un sincero rispetto tanto verso il suo pubblico, quanto verso i suoi personaggi.
Un cinema, insomma, che rischia di assomigliare un po’ troppo a se stesso e di ripetersi con eccessiva autoindulgenza, ma di fronte al quale ci si può abbandonare senza reticenze per farsi avvolgere dolcemente in un abbraccio che non si prefigga altro scopo se non dare conforto.
E non è poco.
Voto 7
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