Venezia74 – Giorno 4

Di Andrea Bosco
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Foxtrot

Quello di Samuel Maoz al Lido si annunciava come una rentrée delle grandi occasioni: dopo il controverso Leone d’Oro conquistato nel 2009 con lo stupefacente Lebanon, ci sono voluti ben otto anni perché la più brillante promessa del cinema israeliano – se si eccettua la sua minuscola partecipazione al tributo collettivo di Venezia 70 – Future Reloaded – desse seguito a un esordio tanto dirompente e sui generis.

Quasi a voler uscire dalle maglie di quell’impostazione rigorosa e opprimente che aveva caratterizzato il debutto, con Foxtrot il cineasta di Tel Aviv dà invece forma a un’opera stravagante ed eccentrica, eclatante e variegatissima idealmente divisa in tre atti – lo shock che investe una famiglia appena avvertita della morte sul campo del proprio figlio, l’assurda, buzzatiana quotidianità presso il posto di blocco dove quest’ultimo è dislocato e la rassegnata disperazione che tesse le fila del racconto con uno spericolato balzo in avanti -, oscillando costantemente fra registri incongrui e soluzioni stilistiche ardite, tornando nuovamente alle suggestioni autobiografiche dei suoi trascorsi sul campo di battaglia ma allontanandosi totalmente dal crudo realismo di Lebanon.



Il risultato è innegabilmente ricco e ispirato, ma penalizzato da un frastornante autocompiacimento e, specie nel segmento centrale che occupa da solo metà del minutaggio, da un’insistita bizzarria che alla lunga rendono il film a tratti respingente e artefatto: pare quasi che Maoz voglia celare a tutti i costi uno sguardo appannato dall’ambizione con un’aria di coolness che finisce solo per creare confusione (l’intermezzo musicale, la sequenza animata, un surrealismo gratuito inframmezzato dall’iperrealismo di prologo ed epilogo) e per ingabbiare il tutto nei limiti del vacuo esercizio di stile.

Un’innegabile dimostrazione di poliedricità, un gradito ritorno e poco altro, quindi, che vale soprattutto come estremo opposto al debutto che di certo servirà all’autore per dare alla sua successiva produzione un indirizzo più equilibrato.

suburbicon

Si torna negli Stati Uniti, invece, con Suburbicon, ma la delegazione ha ancora una volta poco di cui vantarsi: George Clooney recupera dal cassetto dei Fratelli Coen una vecchia sceneggiatura risalente al 1986, rimaneggiandola insieme al fido collaboratore Grant Heslov per trasformare il loro classico canovaccio a metà fra il noir e il grottesco, fattosi col passare dei decenni cifra stilistica, in una pantomima sull’incattivimento della classe media della provincia e stendendo un parallelo fra l’ipocrisia zuccherosa dell’America dei favolosi anni cinquanta e il tragicomico salto all’indietro dell’Era Trump.

Quello che viene fuori è un centone coeniano totalmente privo della creatività, del genio e dell’autentica crudeltà dei registi del Minnesota, non tanto una rimasticazione di Fargo quanto una riproposizione degli elementi della prima fase della loro filmografia (l’uxoricida maldestro di Blood Simple, i sicari cartooneschi di
Arizona Junior, gli intrighi ingarbugliati di Barton Fink), senza la capacità di creare personaggi davvero memorabili – se Matt Damon in versione luciferina e Julianne Moore in un ruolo gemellare da perfetta casalinga sono una delusione,il viscido macchiettone di Oscar Isaac risolleva un minimo le cose -, di rendere avvincenti gli eventi, con una prima ora che non decolla mai e un atto finale disperatamente concitato fuori tempo massimo, e di trattenersi dal tendersi verso uno scioglimento
prevedibile e conciliatorio, suggellato da un finale – invero assai poco coeniano – in cui l’unico superstite del massacro, il piccolo Nicky, e il figlio dell’unica famiglia afromericana residente in città, si ritrovano a giocare insieme dopo un assalto notturno che sembra un incrocio fra un film di Romero e, a posteriori, i disordini di Charlotteville.

Sicuramente un buon biglietto da visita per la probabile scalata alla Casa Bianca da parte di un divo liberal che di recente si è mostrato più preoccupato del proprio profilo pubblico che del proprio percorso artistico, ma un altro passo indietro, dopo l’insulso Monuments Men, per un protagonista dello star system che, al sesto film, sembra ancora nutrire forti dubbi sul tipo di regista che vuole essere.

la-villa

Se la quotidiana sortita in Orizzonti si risolve in puro imbarazzo grazie al nostrano La vita in comune, sconclusionato e inspiegabile exploit brillante da cinema parrocchiale a base di comicità di grana grossissima, caricaturismo pietoso e regionalismo da barzelletta che si dimostra totalmente fuori dalle corde di un cineasta altrimenti di tutto rispetto come Edoardo Winspeare, il Concorso ritrova la sua forma migliore grazie alla riunione familiare de La villa, nuova occasione per Robert Guédiguian, a sei anni da Le nevi del Kilimanjaro, per interrogarsi sulla sorte e sulle derive della borghesia francese medio-alta figlia del Sessantotto ritrovatasi – citando i dialoghi – “come tutti, con il cuore a sinistra e la testa a destra” a patire i sommovimenti post-ideologici del nuovo secolo.

Guédiguian si conferma, specie alla luce della banale retorica buonista dei concorrenti a stelle e strisce dell’edizione, un autore disposto a meditare seriamente sull’odierna necessità di un cinema progressista, anche a costo di mostrare le corde del discorso a tesi che i suoi personaggi fanno fatica a nascondere e di buttare nel calderone l’attualità nel modo meno originale possibile (i bambini profughi che irrompono nella rimpatriata e costringono i tre fratelli a fare i conti con la concretezza dei loro ideali). la scrittura, però, si fa via via più ficcante e attenta – aiutata grazie anche all’aiuto di interpreti smaglianti come lo storico alter ego Jean-Pierre Darroussin -, il tono non si fa mai pedante o piagnucoloso, come accadeva invece nell’affine, asfittico Ritorno a L’Avana di Cantet, e la riflessione sull’ineluttabilità del passaggio del tempo e sul rimpianto per le cose perdute (politicamente, ma anche, nel caso dell’attrice sfiorita interpretata da Ariane Ascaride, moglie di Guédiguian) sa essere davvero autentica e tradursi in un lavoro di grande umiltà e di invidiabile finezza.

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