Black Panther

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Anche qualora non fosse, come buona parte della critica americana lo ha già definito, il “miglior Marvel di sempre”, va comunque riconosciuto a Black Panther il merito di aver alzato – e di parecchio – l’asticella qualitativa dei cinecomic in generale. E se è vero che l’universo supereroistico par excellence ci ha abituato a dare il meglio di sé, almeno in termini cinematografici, proprio con i personaggi più periferici – e Doctor Strange e Ant-Man sono lì a dimostrate questo assunto – Ryan Coogler, forse perché più libero dalle aspettative a volte castranti dei fan più ortodossi, offre un importante contributo a un processo, per molti versi fisiologico, di riscrittura di un linguaggio fin troppo codificato come quello dei supereroi su pellicola. In questo il lavoro del regista è perfettamente in linea, sebbene meno incline all’alleggerimento dei toni, con i recenti Spider-Man Homecoming e Thor: Ragnarok. Due sono però le principali novità di Black Panther. In primis c’è l’elusione di un elemento fino a qualche anno fa imprescindibile per il genere, ovvero tutto il discorso legato alla genesi del supereroe di turno – una persona normalissima, quando non addirittura ordinaria, a cui un  incidente regala poteri sovrumani – che qui viene saggiamente condensato in una manciata scarsa di minuti, prima ancora che il film abbia inizio.



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E poi c’è Wakanda, nazione fantasma nascosta nel cuore dell’Africa nera e ricchissima di vibranio,  un metallo immaginario e virtualmente indistruttibile (ma, a differenza dell’adamantio wolveriniano, presente in natura) che ha permesso al suo popolo una serie di progressi tecnologici inimmaginabili per la civiltà occidentale. Il film nasce e si sviluppa quasi interamente qui, lontano da una New York per una volta non minacciata né da invasioni aliene né da villain affetti da generiche velleità espansionistiche, forse perché già alle prese nella realtà con problemi ben più gravi.
La storia  è quella del giovane principe T’Challa (Chadwick Boseman) che, dopo la morte di suo padre, torna a casa per salire sul trono di Wakanda. Quando due pericolosi nemici cospirano per portare il regno alla distruzione, T’Challa è pronto a raccogliere l’eredità di suo padre e a indossare gli artigli di Black Panther, con l’aiuto di un agente della CIA (Martin Freeman) completamente ignaro delle ricchezze locali, e con il corpo speciale wakandiano delle Dora Milaje, tra le quali figura anche l’amata Nakia (Lupita Nyong’o).

Passando al motivo che forse più di tutti ha decretato l’immediato tripudio oltreoceano di Black Panther è innegabile come Coogler sia abile nello sfruttare l’occasione di trovarsi tra le mani un blockbuster per azzardare un’analisi sociale niente affatto scontata. L’idea che ci sia un’intera nazione “mascherata” da paese povero ma tecnologicamente più avanzata di qualsiasi potenza mondiale porta il film a trascendere dal semplice discorso superomistico. La coralità del racconto ci parla infatti più di un superpopolo che non di un semplice supereroe. Così come l’effetto di un cast composto per il 90% dal gotha del cinema black americano – non solo Lupita Nyong’o, ma anche Angela Bassett, Forest Whitaker e il lanciatissimo Sterling K. Brown – in un’opera di puro intrattenimento, senza cioè ambizioni di carattere dichiaratamente sociale, è piacevolmente straniante. La novità fondamentale apportata da Coogler al mondo dei cinecomic non è infatti tanto quella di raccontare un supereroe di colore – ché già Blade e il televisivo Luke Cage sopperivano a quella mancanza –  quanto lo sviluppare il rapporto tra questo e le sue responsabilità non in un’ottica individualistica, e quindi occidentale, ma fieramente identitaria e culturale. Ad amplificare un hype già alle stelle ci pensano la fotografia adorabilmente africanocentrica di Rachel Morrison e le musiche di Kendrick Lamar.

Voto 7,5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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