Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
“Non ho fretta” dice Amin mentre, nell’ultima scena del film, si allontana di spalle da una macchina da presa che per tre ore non gli si è mai staccata di dosso. Ed è una frase importante per più di una ragione nell’economia di questo Mektoub, My Love: Canto uno. In primis perché amplifica e suggella il senso di un’opera che, per raccontare l’urgenza della giovinezza, sceglie sì di condensarla nella sua stagione per forza di cose più breve – l’estate – ma, al tempostesso, ha il coraggio di diluirne la forma, costruendo la narrazione attraverso una serie di lunghissime scene di raccordo che, una volta messe insieme, finiscono per assomigliare incredibilmente alla vita. In quest’ottica Abdellatif Kechiche radicalizza un processo già pienamente compiuto nel precedente e bellissimo La vita di Adele e allenta ancora di più le maglie di uno storytelling che rifugge in tutti i modi la scena madre preferendole di gran lunga l’accumulo di elementi, molti dei quali solo apparentemente periferici. Così Mektoub, My Love: Canto uno parla la lingua del racconto di formazione ma ne rielabora però dall’interno l’intera impalcatura sintattica. Non ci è dato infatti sapere se Amin, alla fine, riesca a dare realmente un senso a tutta quella vita che, nel corso di una sola estate, gli si srotola davanti. Non c’è, in buona sostanza, né un “prima” né un “dopo”.
Ed è proprio così che Kechiche cattura, ancor meglio di Luca Guadagnino in Chiamami col tuo nome, l’essenza profonda di un’età che, più che alla ricerca di un significato, è votata all’esplorazione del significante. Che, in questo caso, si traduce in una fame insaziabile di sguardi, abbracci e corpi. Soprattutto i corpi, che l’autore franco-tunisino scandaglia con ossessività mai lasciva – non siamo, per intenderci, dalle parti di Harmony Korine – lasciando che siano loro, e soltanto loro, a dettare il ritmo. Liberamente ispirato al romanzo “La ferita, quella vera” di François Bégaudeau, Mektoub, My Love: Canto uno inizia con il più classico dei ritorni a casa. Quello di Amin (Shain Boumedine), deluso da una Parigi in cui sogna di vivere da sceneggiatore ma sopravvive facendo il cameriere, a Sète, suo paese d’origine, dove, nell’estate del 1994, ritrova gli affetti di sempre e soprattutto il cugino rubacuori Toni (Salim Kechiouche) e Ophélie (Ophélie Bau), amante di quest’ultimo e amica d’infanzia alla quale (forse) Amin non è mai riuscito a confessare il proprio amore. Da lì in poi, il film procede per derive; continue digressioni da un asse principale (lo stesso Amin) che rimane fermo mentre tutto il mondo intorno continua instancabilmente a girare.
Nel voyeurismo silenzioso e sorridente di Amin – il film si apre con il ragazzo che spia un amplesso da una finestra – c’è senza dubbio il tentativo di Kechiche di essere presente nella storia nel momento stesso in cui questa viene raccontata e questo è forse il maggiore scarto rispetto a La vita di Adele, nel quale la protagonista veniva invece abbandonata al suo destino da una regia il più possibile nascosta. Quel destino – il mektoub del titolo – che qui viene mostrato nei suoi tratti più leggeri e spensierati. Come è leggero, al netto della sua durata monstre, questo disperato inno alla gioia pieno di sole in cui nulla di ciò che accade assume mai connotazioni negative, neanche quando ferisce. Poi, certo, ci sarà senz’altro – come a Venezia, dove il film era in concorso nel 2017 – chi non riuscirà ad andare oltre l’insistita esibizione del fondoschiena femminile in tutte le sue possibili varianti, senza contestualizzarlo in un discorso assai più ampio di progressivo annullamento del racconto cinematografico per come lo conosciamo. Ma ecco che, una volta superata la fretta – un po’ come Amin nella scena di cui parlavamo all’inizio – e il limite che impone ad ogni storia di avere un inizio, uno svolgimento e una fine, Mektoub, My Love: Canto uno inizia ad apparirci esattamente per quello che è: un enorme ed estremo atto di cinema. E quindi anche d’amore.
Voto 8
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