Ride

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Ride

Quanto può essere difficile fare un film sulla morte senza un briciolo di retorica come Ride? Può esserlo molto.
Nel 1969 la psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross, tra i massimi esperti delle implicazioni psicologiche riguardanti la morte, pubblicava il libro “On death and dying“. Uscito in Italia con il titolo “La morte e il morire“, è considerato un classico della psicologia contemporanea soprattutto per il modello proposto dall’autrice per l’elaborazione del lutto. Davanti a ogni grande perdita e dolore, sosteneva la studiosa, le persone attraversano sette fasi: prima lo shock, poi la negazione, cioè quel meccanismo di difesa che ci porta a non volere credere a ciò che è accaduto, seguita dalla rabbia e dal desiderio di ribellione. Poi subentrano la negoziazione, che si porta dietro la ricerca di spiegazioni e soluzioni, dopo ancora la depressione, che consiste in una sorta di resa e infine l’accettazione seguita dalla speranza.

Stranamente Carolina, giovane vedova che ha appena perso il marito in un incidente sul lavoro, non sembra attraversare nessuna di queste fasi. Siamo a Nettuno, sul litorale laziale, alla vigilia di un funerale che, per qualche ora, richiamerà attenzione e telecamere. La scelta del Valerio Mastandrea regista spiazza sin dalla prima scena, perché più che la tragedia in sé, decide di concentrarsi su quanto la circonda. Così Carolina (Chiara Martegiani) non riesce a trovare le lacrime che il suo ruolo le imporrebbe, mentre suo figlio Pietro prova e riprova un’intervista tv per attirare l’attenzione della ragazzina con cui vorrebbe mettersi. Il padre della vittima, anche lui ex operaio (un sempre puntuale Renato Carpentieri alle prese con un personaggio quasi shakespeariano) ritiratosi in solitudine in una casa sulla spiaggia, ragiona coi vecchi compagni di fabbrica sulle morti bianche di ieri e di oggi.



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Il primo film da regista di Valerio Mastandrea, che lo ha anche scritto (con Enrico Audenino) e co-prodotto, tutto sembra tranne un’opera prima. Non lo sembra perché in cabina di regia c’è un attore maturo, protagonista indiscusso degli ultimi venticinque anni del nostro cinema e che con Ride sembra quasi voler portare a termine un percorso iniziato interpretando i tanti ruoli, tutti pieni di umanità, nei quali abbiamo potuto apprezzarlo. E non sembra un’opera prima perché, per forza di cose, si connota già come un film adulto, di un autore che sa esattamente che cosa vuole dire e conosce il modo in cui farlo (in più di una scena si riaffacciano con una certa prepotenza gli insegnamenti di Claudio Caligari, nel raccontare la periferia romana e nell’asciuttezza dei dialoghi). Peccato solo che a interpretare la protagonista di questa storia così particolare ci sia un’attrice troppo acerba sia fisicamente che tecnicamente che non riesce a far proprio il peso e la complessità del ruolo che le è stato affidato. Una Chiara Martegiani bellissima ma che ha ancora molta strada da fare.

Carolina è una diversa. Diversa perché è di Rimini («è straniera», dirà suo figlio), diversa perché non fa quello che tutti si aspettano da lei: impazzire di dolore e piangere per la morte del marito. È come sospesa, bloccata in una bolla, ferma in un altrove insieme a nessun altro. Le passano davanti agli occhi amici, fratelli ed ex fidanzate di suo marito, tutti distrutti. Lei invece sta bene e si sente in colpa per questo. Ma esiste quindi un protocollo del lutto? E ancora: ci sono delle convenzioni sociali che vanno rispettate quando perdiamo qualcuno a cui vogliamo bene? È un film pieno di vuoti, Ride. Vuoti creati dalle persone che non ci sono più e che lasciano spazi da riempire con nuovi gesti, vuoti creati da quello che dovremmo essere e non siamo. Spazi vuoti da colmare per quelli che restano.

Voto 6,5

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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